E’ in libreria il romanzo storico di Ido Cibischino

(Editore Aviani – illustrazioni di Gianni Di Lena)

 

 

Il fros curt

PROFILO DEL LIBRO

Due vite, due traiettorie che nelle diverse origini mai avrebbero potuto neppure sfiorarsi, alla fine entrano in collisione fino all’epilogo mortale. Mentre lo sfondo delinea le tappe e le atmosfere del ventennio fascista con le esaltazioni, le illusioni e le tragedie che lo segnarono, è sul rimbalzo tra due figure, e sui mondi di cui sono espressione, che corre il romanzo storico che il giornalista Ido Cibischino ha appena dato alle stampe (editore Aviani). E’ il terzo lavoro – impreziosito dai lampi scenici dell’illustratore Gianni Di Lena – di una produzione letteraria cominciata con “Buine fortune – L’emigrazione friulana nel secondo dopoguerra” scritto con gli studiosi Ottorino Burelli e Javier Grossutti; e proseguita con “Teiello”, opera in lingua friulana che rievocando vissuti familiari e schegge personali si inoltra nelle trasformazioni epocali degli anni Sessanta.
Scritto in italiano ma profondamente friulano è anche questo nuovo libro, a cominciare dal titolo (“Il fros curt”) e dall’ambientazione, il Medio Friuli, con l’epilogo nell’estate del 1944 allorchè più viva e ficcante si era fatta la lotta partigiana contro gli occupanti tedeschi e gli irriducibili della Repubblica sociale che li affiancavano: guerra civile e guerra di liberazione, e tempi di rese dei conti. Tempi violenti sui quali i protagonisti – inseguendo l’uno la brama di comando e di potere, e di conseguenza l’apprezzamento dei vertici del regime; l’altro l’emancipazione da una marginalità indotta dalla schiavitù della terra più che sollecitato da spinte ideologiche – confluiscono senza conoscersi. E senza conoscere il destino che li metterà di fronte nel tragico atto finale.

Ecco come Ido Cibischino presenta il suo lavoro nell’introduzione.

Non è un’invenzione, non è un’opera di fantasia. Anche se l’immaginazione ne è in parte il tessuto che la riveste. Sotto, a reggere la trama, sta l’architrave di una storia vera e tragica, come altre di maggiore risonanza accadute negli ultimi spasimi del regime fascista, in una fase frastagliata di guerra civile e di lotta di liberazione, sui crinali incerti tra atti di giustizia e vendette, e mentre serpeggiavano prospettive sconvolgenti che lasciavano in bilico persino i destini di parte delle terre friulane.   Di quel fatto – l’uccisione nel luglio del 1944 dell’ex podestà di Talmassons per mano partigiana – avevo colto imprecisi e vaghi frammenti da bambino: in paese ne parlavano mal volentieri e con circospezione, quasi maneggiassero una mina ancora capace di esplodere, quindi da lasciare sepolta sotto la stessa terra che copriva le tombe dei protagonisti. Ebbene, le reticenze di allora, moltiplicatrici di curiosità, me le sono portate dietro per 60 anni, allorché la voglia di sapere è sfociata in una simil-ossessione. Chi erano quegli uomini, perché e come era successo?  Mi sono immerso per mesi nell’Archivio di Stato, ho confrontato le cronache dei giornali dell’epoca e l’ampia pubblicistica che poi ha raccontato quegli anni, ho avuto tra le mani gli atti del processo per omicidio… Il resto sono andato a cercarlo nei posti in cui si sviluppò la vicenda, a riviverlo nella memoria di chi sapeva e non aveva più paura di parlare, persino nei cimiteri. Ciò che mancava l’ho immaginato.                                                                                                                              Il romanzo comincia dalla fine (siamo nel 1960), da un perdono ricusato sul letto di morte. E poi, immergendosi nel “prima” del ventennio e sino alla Resistenza, rimbalza tra due esistenze, lontanissime pur nella vicinanza geografica: quella del podestà squadrista e “padrone” del paese; e l’altra del mezzadro, del giovane contadino che affida alla pistola la sua emancipazione. E’ anche il caso ad armargli la mano, quando sarà lui a pescare la pagliuzza corta (il fros curt) tra i candidati a eseguire la sentenza di morte emessa dal comando partigiano.                                               Sarebbe fuori strada chi volesse vederci ideologia e pulsioni di parte. Il presente lavoro non è altro che una curiosità appagata; non sta a me stabilirne il valore come contributo di ricerca, in ogni caso non più di un rivolo scavato a valle di avvenimenti che stravolsero il mondo e costarono oltre 60 milioni di vite.                                                                                                                Debbo confessare, per onestà, che inoltrandomi nell’analisi documentale e nell’approfondimento dei profili psicologici dei personaggi non sono riuscito talvolta a scongiurare un processo identificativo che mi ha spersonalizzato, al punto da farmi sentire fascista, comunista, partigiano… Il tutto pervaso da un sentimento di comprensione umana che non dovrebbe appartenere all’asettica disciplina dello storico, ciò che in effetti non sono, riconoscendomi soltanto come narratore.

 

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