Il dentro, il luogo chiuso, assume per lo più un significato negativo associato all’idea di isolamento, di incomunicabilità, di claustrofobia.
In verità, non è sempre così. Può diventare un luogo di meditazione, di tutela e trasmissione del sapere acquisito (conventi), di sperimentazione e creazione (laboratori), di preghiera, di contemplazione, di poesia (luoghi ameni o, al contrario, luoghi chiamati del terzo paesaggio, quello che sembra dimenticato).
Quest’ultima tendenza sembra proprio esprimere la contemporanea produzione della fotografia stenopeica rivolta verso il mondo interiore, la cui essenza è un coacervo di tensioni.
Al contrario, quella ottocentesca era tutta intrisa di ricerca del sublime nella natura, sottolineata da una composizione possibilmente equilibrata.
E questo trasferimento verso l’interiorità lo si avverte anche nelle riprese degli spazi esterni che diventano ora sincopati, ora squilibrati nel rincorrersi di masse disomogenee di chiari e scuri, con gli elementi compositivi labili e spesso illeggibili.
Sono le tensioni del momento che la scrittura stenopeica trasforma in vibrazioni di luce.
Dal punto di vista estetico, che siano in bianconero o a colori, si ritorna alla seconda metà dell’Ottocento, allorché il realismo ottico lascia il campo alle impressioni sia in pittura che, in parte, in fotografia con le teorie di Emerson che danno un forte impulso al vedere stenoscopico, punto di forza del movimento pittorialista.
Sosteneva Peter Henry Emerson, il padre del pittorialismo fotografico: In natura nulla ha contorni netti, ma ogni cosa è vista contro qualcosa d’altro, e i suoi contorni sfumano delicatamente in questo qualcosa d’altro, talvolta in modo così sottile che non si può distinguere dove l’una finisce e l’altra comincia. In questa mescolanza di deciso e indeciso, di perdersi e ritrovarsi, sta tutto il fascino, tutto il mistero della natura.
Ma questa estetica, accentuata in alcune sue peculiarità come i profili indefiniti, l’evanescenza dei soggetti, il disfacimento della materia, i contrasti di luce, l’atmosfera sospesa, non è altro che la stessa tendenza estetica che riscontriamo in gran parte della fotografia contemporanea non stenopeica. Allora secondo il sillogismo sofistico la fotografia stenopeica si colloca in piena contemporaneità artistica.
La fotografia stenopeica favorisce le condizioni per un ascolto prolungato del mondo circostante stimolando un nostro lento, ma efficace passaggio, dal guardare al vedere, perché l’attenzione verso gli altri e verso i luoghi non può essere mai frettolosa, non può stare tutta in un clic predatorio. La via della lentezza ci guida verso l’interno, ci rivela una visione più introspettiva, mistica, ascetica, più imponderabile (visione orientale), meno prevedibile, tecnologicamente inconscia, di cosciente incertezza e di attesa. La ripresa stenopeica è priva del clic: è la fotografia silenziosa e del silenzio. La ripresa stenopeica non è predatoria, le immagini ci attendono e si depositano da sole in fondo alla scatola. Le immagini stenopeiche non rappresentano una sintesi, ma una stratificazione degli attimi.
Lo stenoscopista gioca con la luce, il tempo lungo e la forma. La fotografia stenopeica realizza il sogno surrealista dell’autoproduzione meccanica delle immagini mediante la traccia diretta della luce sui materiali fotosensibili attraverso un processo spiazzante, libertario, anarchico.
Ecco, si respira in queste fotografie tutte frutto di sperimentazioni realizzate nel corso del 2020, la ricerca di un respiro ampio e profondo, di un anelito di apertura e libertà…anche se tutto sembra sfuggire, nel rispetto di un’estetica consolidata nel tempo.
Il drammaturgo August Strindberg (fotografo dilettante, ma per un breve periodo in gioventù reporter per una rivista francese) e il critico, poeta e regista John Berger ce lo confermano.
A Berlino, nel corso dell’estate 1892, per arrotondare le sue magre entrate di scrittore, Strindberg progettò una serie di fotografie stenopeiche intitolata Photographie de l’âme.
È il periodo durante il quale lo scrittore e drammaturgo svedese si avvicina all’occultismo e pratica la fotografia utilizzando une chambre sans objectif, seulement avec le diaphragme à trou convinto che tale mezzo possa mettere direttamente in contatto, mediante la registrazione diretta delle radiazioni luminose sui supporti fotosensibili, il naturale col soprannaturale.
Un dialogo fatto di effluvi reciproci e di radiazioni luminose mediante le quali, come un medium, pensa di dar visibilità all’anima di una persona nel ritratto.
Afferma: – M’infischio della mia apparenza, ma voglio che la gente veda la mia anima, e questa appare in quelle fotografie, molto meglio che in tante altre.
Certo: è quasi impossibile restare immobili per un lungo tempo di esposizione e quasi sempre si formano due o più immagini più labili accanto a quella più consistente.
Strindberg ritiene che non solo l’occhio umano sia fallace, ma anche le lenti fotografiche forniscano un’immagine distorta della realtà.
E se il mondo reale oggi ci appare irreale (non tanto per via dell’invasione delle immagini virtuali) e distorto (a causa della periodica clausura e imposizione delle restrizioni individuali) la fotografia stenopeica riesce a esprimere in modo naturale questa situazione esistenziale. Uno status vivendi in cui tutto sembra aleatorio e le certezze oscillanti.
John Berger, nella raccolta di brevi narrazioni diaristiche Fotocopie, riporta questo breve racconto dal titolo Una donna e un uomo in piedi accanto a un pruno: – Ha visto la mia macchina fotografica? ha chiesto. […] Non l’ha notata ieri sera? – Ha fatto cenno in direzione della sua sacca, sul pavimento, vicino alla porta. Accanto alla sacca c’era una scatola che in effetti avevo notato perché era color argento. Le dimensioni erano quelle delle borse degli attrezzi dei meccanici. Qua e là era stata riparata con dello scotch nero. Non mi ero domandato che cosa ci tenesse. Forse vernici. O mele. Oppure sandali e una lozione per abbronzarsi. Come la macchina fotografica originaria, ha detto, come la prima! E mi ha teso la scatola. Non pesava nulla. Le sue pareti erano di compensato. Qui non c’è abbastanza luce, ha detto, andiamo fuori. […] Lì lei ha guardato il cielo ancora coperto di nubi. Due o tre minuti. Ha calcolato a voce alta, poi con cura ha piazzato la scatola sul bordo del tavolo. Al centro di uno dei lati lunghi c’era un cerotto bianco e rettangolare, di quelli che si mettono su una piccola vescica o una scottatura. Il cerotto era incorniciato da nastro adesivo nero. Con le sue dita caute ha tolto il cerotto bianco in modo da scoprire un’apertura, un foro. Poi mi ha preso per mano. Siamo rimasti lì in piedi davanti alla macchina fotografica […] Mentre stavamo lì fermi, riflettevamo la luce, e ciò che riflettevamo entrava nella scatola scura attraverso il buco nero. Sarà la nostra fotografia, ha detto, e siamo rimasti ad aspettare fiduciosi .[…] Molti mesi dopo, Marisa […] mi ha mandato una stampa della foto scattata sotto il pruno. Le nostre tracce restano, eppure sono infinitamente più inconsistenti di quelle degli alberi e sono a due facce: sarebbe difficile per una terza persona stabilire se stessimo andandocene o tornando, se stessimo apparendo o scomparendo, se fossimo persone in carne e ossa oppure fantasmi.
Le ultime due righe della narrazione di John Berger fotografano l’attuale condizione umana che la puntuale produzione di Inside pone in evidenza.
Anche nel coinvolgimento del corpo come soggetto tematico privilegiato, più che la sua forma esterna la fotografia stenopeica sembra proporre la forma interna, percorsa da brividi sussulti, instabilità di linee che riverbera quella emotiva frutto di percezioni mutevoli, mai ferme.
Vincenzo Marzocchini