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Rita Mascialino

Introduzione

Sull’argomento della relazione tra violenza maschile contro le donne e semantica linguistica seguono alcune propedeutiche informazioni sulla presenza di storia e preistoria della mente umana nel linguaggio. Come è noto, le origini dell’Ordine dei Primati, cui appartiene l’uomo, si pongono – per quanto è stato accertato finora – attorno a circa settanta, anche ottanta Ma milioni di anni fa. I Primati non parlanti, compresi i generi antecedenti al genere Homo e il genere Homo stesso ancora non parlante, hanno condiviso nell’ambiente africano le stesse e medesime esperienze esistenziali comuni alle scimmie appunto non parlanti, esperienze che sono state ereditate, nel continuum dell’evoluzione che ha portato alla specie classificata come sapiens dal botanico, medico e naturalista svedese Linneo (Råshult 1707Uppsala 1778), padre della moderna tassonomia degli animali – ci sono studiosi che classificano la specie sapiens come terza specie del genere Pan, in unione alle due specie di scimpanzé, ma di ciò non è qui il discorso. Sono occorsi milioni e milioni di anni per avere linguaggi di parole come quelli che conosciamo – nessuna genetica sforna magiche o miracolose grammatiche e lingue già pronte per l’uso. Gli studi scientifici datano gli inizi e quindi la più remota preistoria del linguaggio umano a diversi milioni di anni fa, più recentemente il sorgere di vocalizzazioni per così dire umane, differenziate da quelle già condivise con le altre scimmie, è stato retrodatato fino a una ventina di milioni di anni fa. Nella prospettiva imbracciata in questo studio l’uomo ha, inevitabilmente, proiettato nella lentissima produzione del linguaggio l’antichissima quanto muta visione del mondo della scimmia non parlante.

La base del linguaggio dunque – lasciando stare qui antecedenti più remoti relativi alle origini dell’Ordine dei Primati stessi – è data a tutti gli effetti dalla più arcaica e oscura esperienza della scimmia conservata nel composito cervello umano come vecchissima memoria, la quale, man mano che la consapevolizzazione dell’esperienza si è estesa grazie alla produzione del linguaggio, è stata lentamente dimenticata. Non è tuttavia scomparsa, ma sta solo rimossa nei percorsi cerebrali cosiddetti muti o inconsci, dai quali si fa comunque sentire proiettata e riconoscibile in molti comportamenti e in primo luogo in quello verbale o fatto di parole, di linguaggi. Della preistoria della mente umana ci sono di fatto tracce sparse a tutti i livelli nei linguaggi attuali, persino, per quanto possa apparire straniante, nella loro morfologia. I linguaggi di fatto non sono soltanto uno strumento, per quanto ancora oggi il mezzo naturale più universale prodotto a livello animale per l’adattamento sempre più funzionale alla vita, bensì sono, di nuovo inevitabilmente, anche un immenso magazzino di memorie viste nell’angolazione diacronica del punto di vista semantico, logico e psicologico, antichissime e meno antiche, recenti. Lingue che sfaccettano quali macroidentificativi la straordinaria cultura prodotta dagli esseri umani per come si è venuta formando in dinamico sviluppo in epoche e periodi geologici, come, con qualche cenno di esemplificazione e comparazione, andiamo a vedere in questo studio.   

Tracce della mente preistorica del genere Homo e antecedenti espresse nella spazialità dell’antico pittogramma relativo alla notte, ancora echeggiante nei linguaggi attuali

Della scrittura, risalente alla soglia tra protostoria e storia e dagli inizi – strabilianti – nelle remote pitture parietali di circa trentamila anni fa fornite dell’inevitabile vecchia matrice preistorica di cui sopra, viene qui illustrato il pittogramma sumero dell’area culturale mesopotamica, databile a circa seimila anni fa, relativo alla simbolizzazione grafica della notte (Georges Jean 1986/1992: 17). Esso mostra una serie di segmenti perpendicolari al suolo che si dipartono da una linea convessa in alto simboleggiante la volta del cielo, ciò secondo la spazialità apparente dell’arrivo della notte in discesa dall’alto, interpretazione dell’ambiente che, giunta dal più arcaico passato, occhieggia ancora nel linguaggio attuale in tanti modi di dire usciti dalla preistoria: scende la notte, cala la sera, cadono le ombre e simili, sebbene oggi ormai si sappia che nulla di tutto ciò scende da nessun luogo su nessun luogo. Nel piano dell’ovvietà – o della banalità – che evita l’analisi e gli approfondimenti dando per scontato anche ciò che scontato non è, si tratta di un semplice modo di dire, senza particolari problemi, poetico se si vuole e metaforico. In realtà il pittogramma, all’epoca del suo sorgere come tratto grafico, corrispondeva a un modo per così dire oggettivo, con tutta la relatività del termine nelle varie epoche, di vedere le cose, i fenomeni, un modo facente parte di un’interpretazione naïf dell’ambiente vecchia di milioni e milioni di anni prima che fosse espressa nei pittogrammi. In altri termini: nel passato remoto e meno remoto la notte scendeva realmente dal cielo, come pure il sole realmente moriva e sprofondava nelle acque o tra i monti, appunto tramontava, anche le ombre cadevano sul mondo e simili spazialità discendenti dall’alto al basso secondo un’arcaica modalità di comprensione dei fenomeni che, lungi dallo scomparire, ancora è conservata quale memoria ereditata e si presenta appunto nella spazialità convogliata dal linguaggio di parole, come anche prime ideazioni pittografiche della scrittura testimoniano. Come a dire che nei linguaggi la più arcaica preistoria stia misteriosamente fra gli uomini odierni per gran parte non vista perché protetta o mascherata dal manto dell’ovvio, rimanendo così in vita più o meno per lunghissimi tempi o magari forse per sempre a connotazione del lungo e avventuroso viaggio che la visione del mondo prodotta dal più multiforme uomo porta con sé. 

Il termine uomo e la sua preistoria 

Venendo al tema della violenza maschile contro la donna, premetto che verrà utilizzato, per ragioni intrinseche alla cultura espressa nella lingua italiana, il termine maschio e derivati per intendere l’uomo entro l’ambito biologico maschile e non il sostantivo uomo, in quanto quest’ultimo, secondo il contesto in cui si viene a trovare, congloba anche l’ambito biologico femminile, potendo con ciò produrre la fallacia logica di equivocazione. 

Prendiamo il termine italiano uomo corrispondente in toto nella semantica al latino homo – tenendo conto che eccezioni alla regola o a quella che appare come regola ce ne sono sempre tante a tutti i livelli, scientifici e non scientifici. Vediamo dunque come homo, nell’ambito della duplice rappresentanza del sesso maschile e femminile, assorba e cancelli nel genere maschile quello femminile che semplicemente scompare lasciando il posto al maschio: L’uomo è un animale bipede, Gli uomini hanno una lunghissima preistoria intendendo con uomo e uomini l’essere umano come il genere umano importante, ossia che conti, sia solo appannaggio maschile e come sia scontato che quello femminile non compaia come tale, questo in una sudditanza presente già nel mondo della scimmia – sappiamo che il maschio dominante impera sulle femmine del branco dittatorialmente, per servirci di un eufemismo nell’ambito del suo dominio. Nella semantica testé citata, il termine non è casuale né dovuto come può sembrare permanendo nell’ottica dell’ovvietà che evita ogni analisi delle cose come stanno, bensì è un segno della persistente presenza, nella società cosiddetta democratica, di un arcaico modo maschile ancora attuale di intendere la dignità del genere femminile tutt’altro che favorevole alla donna, un concetto proveniente dalla più remota e più oscura preistoria del genere umano presente nel branco di scimmie. Nella cultura italiana, sul piano del diritto fondamentale all’identità, la donna, a livello linguistico e quindi concettualmente, nonché nei fatti, per così dire non esiste, nell’antichità latina come pure nell’attualità, epoche in cui essa permane – quanto a dignità identitaria del suo genere – nella sfera anonima, quasi un essere senza volto, con un burqa mimetizzato o nascosto nelle recondite e antichissime pieghe del linguaggio, ma esistente, proiettante la struttura sociale di epoche mute. Qualche differenza fra le culture. Ad esempio nella lingua tedesca, der Mann è l’uomo solo di genere maschile, ossia non rappresenta anche quello femminile, ossia ancora: non corrisponde al latino homo e all’italiano uomo che nell’accezione di genere valgono per il maschile e per il femminile. Donna in tedesco è die Frau. Mensch, di genere maschile e comunque una derivazione da Mann, assomma in sé maschi e femmine in un concetto diverso dai due generi presi singolarmente: Der Mensch ist ein vernünftiges Tier, dove Mensch, diverso da Mann, indica uomini e donne. In italiano non esiste un termine propriamente corrispondente al singolare Mensch che si rende in generale pertanto con il polisemico uomo, valido per uomo maschile assommante in sé anche il genere femminile rappresentato dal maschio, traducendo l’esempio di cui sopra: L’uomo è un animale razionale – lasciando qui stare ulteriori termini utilizzabili tipo essere umano e simili che esistono anche in tedesco e che non riguardano la semantica del termine homo-uomo. In tal senso il plurale Menschen può essere ridato sia con uomini, con lo stesso problema testé sollevato, o con gli umani etc., intendendo con tali termini uomini e donne e così via, ma nulla può togliere a homo-uomo homines-uomini il loro significato e il loro retroterra. Ciò però non significa che nella cultura tedesca la considerazione della donna sia impeccabile, tutt’altro, ciò che è andato fuori dalla porta, è rientrato dalla finestra. Nelle alterne vicende relative al termine Mensch nelle varie epoche, esso esiste anche fornito di genere neutro, das Mensch, utilizzato in questa modalità grammaticale ancora oggi per connotare un essere femminile diciamo di dubbia moralità. Ricordiamo qui che in tedesco anche das Weib, femmina, che riguarda la definizione autonoma del genere femminile, non è di genere femminile, bensì neutro, dal latino neutrum-ne-utrum: né uno, né l’altro dei due, così ad esempio come il neutro das Kind, bambino, cui non viene dato ancora il diritto di avere un’identità pur nella chiarezza del genere biologicamente parlando, ma appunto si tratta non di biologia, ma di un diritto, il diritto all’identità, alla differenziazione che nella cultura germanico-tedesca andava e va ancora oggi guadagnato sul campo per usare un termine militare adatto a tale etnia, campo che all’apparenza le donne non si sono ancora conquistate e che non è stato loro ancora riconosciuto dai maschi al di là di qualche parsimoniosa concessione sotto il loro più stretto controllo al di là di apparenze liberali di superficie. Tra parentesi: il sostantivo das Weib, appunto neutro per femmina e per il genere femminile, indicava nell’VIII secolo d.C. nell’antico alto tedesco più specificamente addirittura la donna o più esattamente la femmina sposata che, secondo l’etimologia più accreditata del termine, era coperta, avvolta, nascosta nel mantello, capo compreso, un’interpretazione del burqa a quanto appare, salvo poi a significare addirittura anche una donna spregevole, tanto è vero che Weib, femmina, accanto a die Frau, donna, viene usato più raramente oggi a meno che non sia intenzionalmente inteso in senso offensivo. Lasciando qui stare ulteriori ipotizzate e ipotizzabili derivazioni della radice del termine Weib, è alquanto sorprendente in una delle innumerevoli vere e proprie meraviglie linguistiche a livello semantico-grammaticale, che il sostantivo der Mensch, pur di genere maschile, non abbia la declinazione cosiddetta forte spettante al maschile nella lingua tedesca con desinenze dei casi al singolare originariamente molto diverse l’una dall’altra a rappresentare l’importanza e la dinamicità del maschio in grado di cambiare la realtà con la sua intelligenza creativa e capacità di realizzazione. Il sostantivo maschile der Mensch dunque non ha la declinazione forte, bensì condivide quella cosiddetta debole, indifferenziata, spettante ai sostantivi femminili, mostrante accanto alla desinenza consueta del plurale femminile -en, ancora in uso nella fattispecie, la desinenza indifferenziata -en per tutti i casi del singolare tranne che nel nominativo, desinenza al singolare che oggi il femminile ha perso, ma che è rimasta nel singolare dei sostantivi maschili cosiddetti deboli, come der Mensch, der Junge, il giovane etc. Così, per caso o per qualche inconscio e malcelato disprezzo per il sostantivo definito debole, in ogni caso non degno della declinazione cosiddetta forte del maschile, è rimasta in tale termine la fusione dei due generi, da un lato nell’articolo maschile, forte, dall’altro nella declinazione femminile, debole.

Il termine femminicidio e la sua preistoria

Venendo a un’ulteriore riflessione di ordine linguistico, segue una nota sul termine femminicidio, che personalmente considero uno schiaffone alla dignità della donna, come un trattenerla indietro nelle epoche, riservandole come genere umano la grotta preistorica della femmina nel branco dei Primati. Che tale termine sia sorto nell’ambito femminile non cambia nulla, evidentemente non è stata data importanza al termine e comunque, forse peggio, vi è stato un semplice adeguamento acritico femminile al termine femminismo ideato nell’Ottocento da medici francesi, maschi, che intendevano con tale concetto un indebolimento dell’energia nei maschi deboli come femmine, quindi un concetto sorto in un ambito maschile negativo per la donna, ambito non contestato dalle donne nel loro impossessamento del concetto – si noti il termine femme per donna e moglie, anche nella locuzione divenuta famosa della femme fatale, con la negatività a ciò intrinseca a prescindere dal fatto che la locuzione possa magari essere gradita in un fraintendimento del concetto. Si dovrebbe inserire nella cultura italiana, sempre permanendo nel contesto della strage di donne a opera dei maschi, un neologismo: donnicidio, che qui adotto e propongo nel mondo di concetti sul piano linguistico. Ciò eviterebbe la degradazione della donna al rango di femmina nell’area in questione. Dettagliando ancora sul piano linguistico: per andare solo in un idioma minore o lingua regionale, in friulano uomo si dice om(p), donna si dice femine, femmina, non solo: marito coincide con om(p), uomo, moglie con femine, femmina, come se – in un esempio analogico non troppo estremo che non vuole essere un’offesa per la mentalità maschile – la donna e la moglie appartenessero al branco di bestie allevate dal maschio e fatte lavorare per lui nonché procreare. In ogni caso il termine femminicidio si dovrebbe almeno oggi sostituire con il termine sopra citato donnicidio, più consono alla dignità delle donne che potrebbero così essere assassinate come persone, non più a bastonate come le mucche un tempo, sempre dai maschi, e magari così potrebbero avere un’identità più dignitosa, ciò che potrebbe anche rendere più grave il loro assassinio – anche il linguaggio non è un’opinione, non solo la matematica. Una parola sul termine omicidio: esso è composto da homo e occidere, uccidere, dove il termine homo-uomo si riferisce all’uomo e alla donna, di nuovo rappresentata dal maschio onnicomprensivo, mentre ad esempio in tedesco sta il termine di derivazione dall’antico germanico der Mord, assassinio, termine che non congloba la donna e neppure cita il maschio, ma solo il crimine, questo per evidenziare qualche differenza culturale come quelle già illustrate. L’Italia è tra i Paesi più conservatori del mondo, non ama le novità che si accettano quando sono diventate già vecchie rispetto alle altre culture da cui in genere provengono, comunque alcuni svecchiamenti e innovazioni nei termini, ossia a livello di concetti espressi linguisticamente, si fanno ogni tanto anche in Italia per il possibile e specialmente di recente, ossia ove possibile si sostituiscono alcuni termini con altri più consoni ai tempi, ai regimi democratici. Una tale sorte è toccata, ad esempio, a spazzino, che è stato sostituito a più mandate fino a diventare operatore ecologico. Una sostituzione affine di femminicidio con donnicidio è possibile, si potrebbe attuare senza fare danno, solo magari disturbando qualche cosiddetto benpensante. Tuttavia, chissà mai perché non si fa, mi chiedo sperando che si faccia una volta o l’altra. In tedesco, per riprendere la comparazione semantica, esiste, accanto a Femizid e forme simili, anche il termine di radice tedesca più decoroso e più esplicito – per questo anche più spaventoso, senza veli di derivazione latina a sfumare i concetti sgraditi, la violenza maschile – Frauenmord, assassinio della donna o delle donne, il tedesco è lingua sempre molto molto chiara, mai edulcorante o semanticamente mimetizzante quanto può rivelare verità scomode, il tedesco è lingua dell’esplicitazione di tutto per filo e per segno, ma su questo non ci possiamo soffermare per non andare fuori tema. Nella cultura italiana può stare – quasi parallelamente – donnicidio dall’evoluzione del latino domina, padrona di casa da cui è derivato donna, e occidere, uccidere, certo con la componente violenta un po’ meno evidente, ma termine che evita almeno femina-femmina che nel contesto della strage di donne risulta offensivo fino all’inaccettabilità. 

Conclusione

Per concludere il breve excursus di semantica linguistica nell’ambito della violenza maschile contro la donna, sono stati illustrati alcuni termini che parlano di un’ottica di prevaricazione e sopraffazione, anche di annientamento nel profondo, da parte del più forte verso il più debole. Il tema dell’identità della donna è fulcro oggi di lotte anche cruente in alcuni Paesi, dove soprattutto maschi giovani si sono schierati con la loro maggiore forza a fianco delle donne e combattono generosamente e muoiono condannati a morte per i diritti delle donne e di libertà di tutti dal regime teocratico ancora legittimato da una divinità, non dal popolo, il più arcaico e tra i più ingiusti e crudeli di tutti i regimi umani sulla Terra come la storia insegna, donne che si devono ancora oggi avvolgere in mantelli che le coprono impedendo loro di vedere a tutto campo, di camminare liberamente, di correre, mantelli che nascondono o cancellano il volto, come a negare la manifestazione della loro identità nella vita, il diritto della donna alla vita stessa. Maschi che sono da sempre i padroni del mondo, come secondo la loro maggiore forza fisica rispetto alle donne e la mancanza di incombenze procreative. Maschi che possono esprimere liberamente, come è giusto che sia nell’unica possibilità di vita di ciascuno, tutti i talenti e malgrado ciò non lasciano libera la donna di esprimere la sua intellettualità, la sua natura quale che sia, costringendola in un modo o in un altro a ruoli limitati alle esigenze maschili. Per citare alcune tipologie di eccellenze sviluppate in libertà dai maschi: arte, tutte le arti; scienza, tutte le scienze: tecnologia, tutte le tecnologie; libertà, tutte le libertà possibili, audacia, tutte le audacie possibili e così via, con il più orrido buco nero nella loro strutturazione della società, il più tremendo nella civiltà e inciviltà creata dal Primate umano: il rapporto con la donna, del quale si sono evidenziate alcune vecchie, ma inequivocabili orme culturali valide nella semantica del linguaggio ancora attualmente. 

Rita Mascialino

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