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di Rita Mascialino

Il termine serenata evoca di per sé qualcosa di squisitamente bello: un canto amoroso in genere prodotto nelle notti serene da un maschio innamorato per la sua bella, per farle sentire melodiosamente i suoi sentimenti più appassionati. Ed è effettivamente così, ciò corrisponde alla realtà, tanto più che i maschi sono più o meno unici signori della composizione musicale in generale che è un loro per così dire presidio inviolato e forse inviolabile, con radici molto remote, evoluzionisticamente parlando, forse già nei tambureggiamenti comunicativi degli scimpanzé e dei bonobo contro i tronchi d’albero, anche in vocalizzi, talora urli per attirare l’attenzione delle femmine. Nei linguaggi, posteriori ai tambureggiamenti scimmieschi e ai loro vocalizzi e urli, come pure nella musica, i ritmi occupano un posto primario che sta alla base della semantica linguistica e musicale – anche la musica esprime spazialità dinamiche di ogni genere, fornisce comunicazioni, evoca sentimenti, e i ritmi sono la più profonda e in gran parte inconscia formulazione del significato convogliato a livello propriamente musicale e linguistico – vedi ad esempio gli emozionanti ritmi primitivi a tam-tam dell’Africa nera, evocativi di ancestrali capacità ritmiche propedeutiche alla produzione dei linguaggi e della musica. Per altro, come si può agevolmente constatare, negli uccelli ad esempio, i canti dell’ambito del corteggiamento della femmina prodotti dalla siringe sono cosa comune nella stagione degli amori. In ogni caso dai ritmi si è giunti al canto lirico più evoluto secondo l’apparato della fonazione evolutosi nel trascorrere dei milioni di anni. 

Dopo la breve premessa e venendo alla serenata, non ci sono derivazioni del termine dall’attribuzione certa. Ad esempio, trattandosi di canti notturni, ci può essere come è noto, prendendo il latino, la derivazione dall’aggettivo serus-a-um, tardivo, o dal sostantivo serum-i, tempo tardo nel senso di avanzato, quindi serale-notturno nella giornata, ma anche da serenus-a-um, ossia da sereno riferito al cielo, in quanto canto nelle notti appunto serene. Prescindendo da ulteriori possibili derivazioni per altro tutte incerte, vi sono etimologi che collegano la serenata al termine greco σειρά, seirá, che significa corda, fune, catena, qualcosa che lega, imprigiona quindi. Sebbene, ribadendo, non vi sia niente di certo sulla derivazione del termine serenata, è senz’altro possibile associarlo al greco Σειρῆνες, Sirene, esseri mitologici femminili, originariamente mostruosi – ma anche talora raffigurati come maschi – dal volto umano e corpo di uccello e successivamente di pesce. Erano state immaginate come esseri che portavano la morte ammaliando i naviganti con il loro melodiosissimo canto che si confondeva con il mugghio delle acque facendo naufragare gli incauti. Famosissima è la Sirena Partenope incontrata da Ulisse e a monte della fondazione leggendaria della città di Napoli.  Ciò che è qui particolarmente interessante è non solo il possibile citato collegamento delle sirene alla fune che imprigiona, ossia all’inganno intrinseco al loro canto, ma anche, tornando al latino, collegabile – aggiungo una pura ipotesi di taglio semantico e solo in assonanza con il termine serenata – al verbo sero-is- serui – sertum – serere  che significa legare assieme, incatenare, di incerta origine (Ernout & Meillet 2001: 618-619). Sulla scia di queste ultime associazioni alle sirene, termine derivato forse dal citato greco seirà, nonché forse collegato al verbo latino sero, la serenata potrebbe essere il canto finalizzato a legare assieme, a incatenare, nella fattispecie la donna, attraverso l’espressione canora di sentimenti finalizzati ad esprimere amore, ma anche a incatenare, a legare a sé con un tocco di sinistro associato alle sirene e alla loro finalità di portare la morte ingannando gli incauti con il canto meraviglioso. Non sto parlando dell’inganno come comune comportamento che si può ritrovare in qualsiasi ambito, ma di qualcosa che etimologicamente è – o può verosimilmente essere – intrinseco alla serenata, all’origine per così dire, non nella sfera dell’inganno in generale, ma intrinseco al significato del termine, nel canto di esseri femminili, ma anche in veste maschile. Così la serenata sarebbe diventata un modo, soprattutto se non unicamente maschile, di legare la donna ingannandola con il canto più melodioso, finalizzato a esprimere un sentimento di apparenza e diversamente associabile all’intenzione di legare a sé la donna, di farla cascare nella rete o ragnatela. Di fatto questo accade, non solo nella serenata che oggi si canta molto meno o quasi per niente, ma nella metaforica serenata che il maschio rivolge alla donna che gli piace per legarla a sé, appunto ingannandola con le parole più suadenti, una serenata a livello linguistico, con la musica soave dei toni e dei ritmi dell’eloquio – certo non quelli della rabbia furente –, senza altri strumenti, ma comunque come una vera e propria serenata nella sua derivazione dal significato di fune che lega, imprigiona. In altri termini: se un tempo il maschio cantava la serenata, oggi la canta, per così dire, comunque modulando il discorso, come uno strumento musicale capace di irretire gli animi con la sua musica oltre che con  il contenuto delle parole o anche più ancora con i toni suadenti che con i contenuti. Può essere che il maschio ingannatore magari non inganni, ami veramente la donna cui indirizza la sua versione attuale dell’antica serenata canora, comunque sempre imprigiona e, in qualche caso estremo, come si sa dalla cronaca nera di tutto il mondo, uccide la donna che, resasi conto dell’inganno, voglia sottrarsene andandosene, lasciando un tale uomo. Per fare uno dei tanti possibili rimandi alle scimmie: nelle scimmie organizzate ad Harem sotto l’imperio del maschio dominante, ad esempio nei babbuini, il grosso maschio, quando una piccola scimmietta tenta eroicamente la fuga, la raggiunge in due salti, al massimo due salti e mezzo e le spezza il collo. Ciò vale da esempio alle altre scimmiette che tuttavia, talora, tentano ugualmente la fuga rischiando la morte pur di sottrarsi al comando di un tale maschio. Certo i babbuini, per quanto se ne sa oggi, non appartengono al nostro ramo evolutivo, ma hanno condiviso il medesimo ambiente in cui hanno vissuto gli scimpanzé e i bonobo, le Grandi Scimmie antropomorfe, ossia il ramo scimmiesco imparentato con gli Umani, per cui molte abitudini esistenziali, sociali, erano condivise e vissute da molti gruppi di Primati ancora non Umani, tra i quali quelli che poi sarebbero diventati appunto Umani portando con sé, inevitabilmente, abitudini comportamentali comuni anche ad altri Primati quali i babbuini e per altro gli scimpanzé non erano né sono meno violenti, talora, con le loro femmine, addirittura uccidendole senza motivo alcuno, solo per scaricare i nervi senza rischiare il combattimento alla pari. 

Così concludiamo la breve nota di semantica sulla doppia faccia possibilmente intrinseca alla serenata avendo tracciato qualche collegamento tra la serenata canora cantata sotto le finestre dell’amata, ormai, si può dire, appartenente a tempi quasi del tutto trascorsi, e quella a livello di linguaggi suadenti anche, e in primis, nei toni melodiosi e appassionati dell’eloquio, spesso anche ingannevoli secondo le ipotesi accennate di semantica linguistica: non solo la violenza fisica è violenza, anche l’inganno è una forma di violenza, più vile ancora, in ogni caso molto efficace, come la lusinga contenuta a monte, all’origine nella serenata quale canto ingannatore, non importa cantato da chi, se sirene o se nelle serenate cantate dai maschi innamorati e venuta a far parte del  possibile armamentario maschile da utilizzarsi contro la donna per assoggettarla senza che questa se ne avvedesse, e se ne avveda tempestivamente.

                                                                                                                  Rita Mascialino  

Prof. Rita Mascialino ottobre 2022

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