“IL FERROVIERE di Pietro Germi”

Analisi e interpretazione di

Rita Mascialino

Il ferroviere (1956) è un film in bianco e nero per la regia di Pietro Germi (Genova 1914 – Roma 1974), sceneggiatura di Pietro Germi, Alfredo Giannetti, figlio di un ferroviere e impiegato per un certo tempo presso le Ferrovie nonché autore del racconto Il treno, da cui Germi trasse spunto per il soggetto adatto ad esprimere alcuni tratti importanti della sua visione del mondo, e Luciano Vincenzoni, colonna sonora musicale di Carlo Rustichelli. Viene fatto rientrare in generale dagli storici nella cultura cosiddetta neorealista o tardo neorealista, di cui condivide senz’altro la rappresentazione della realtà quotidiana di semplici lavoratori nel dopoguerra. Si tratta di un’epoca che, detto in molto schematica sintesi, stava vivendo il disorientamento conseguente al cambiamento dei valori dovuto principalmente al crollo del fascismo con le sue regole ferree, gli obblighi e i divieti e con l’ingresso del regime democratico della Repubblica. Tale crollo di valori, che erano stati in auge nell’anteguerra, era inoltre conseguenza dell’esperienza di modi di vita diversi introdotti dalle varie culture presenti sul territorio italiano nella guerra, durante la Resistenza e dopo la Liberazione. Contribuirono a tale cambiamento socioculturale anche la presa di coscienza delle atrocità della Germania nazista e di quelle relative alle foibe, nonché del dramma degli esodi delle popolazioni nel nuovo assetto del confine dell’Italia orientale, non da ultimo e non da meno la visione del mondo intrinseca al più libero modus vivendi dei soldati statunitensi. Germi tuttavia non resta chiuso all’interno del neorealismo che gli andava stretto, ma lo supera per l’assenza di qualsiasi conformismo delle idee: Germi non partecipa in questo film – e neppure negli altri suoi due capolavori dei tardi anni Cinquanta L’uomo di paglia (1958) e Un maledetto imbroglio (1959) – a canti corali di nessun genere, come verrà mostrato nell’analisi critica qui presentata. 

Anticipando alcuni argomenti importanti del film, emergono i grandi temi della vita, primi fra tutti i temi dell’affettività, dell’amore e della morte – temi importanti nel Ferroviere e anche nelle altre due opere sopra citate –, inoltre l’offensiva sferrata alla Sinistra, questo in un’epoca dove la sinistra era in piena ascesa – ciò che fu alla base della critica negativa contro il film di Germi. Germi tratteggia vigorosamente nel film un’angolazione approfonditiva sulla diversa personalità dell’uomo e della donna rispetto alla natura dell’amore, sulla relazione tra padri e figli, sulla famiglia in generale inserendo tali tematiche negli anni della ricostruzione, ma appunto anche di crisi dei tradizionali valori nell’incertezza del cammino verso i nuovi orizzonti sociopolitici e culturali schiusi nel dopoguerra. Germi non era comunista e meno che mai fascista come risulta, a parte le sue dichiarazioni in merito – le dichiarazioni degli autori su se stessi e sulle proprie idee possono essere vere, ma anche false o errate in buona fede –, soprattutto dall’analisi sul piano oggettivo delle sue opere. Nel film non ci sono richiami né diretti né indiretti al fascismo né alla sua ideologia. Per fare un esempio, nel film L’uomo di paglia c’è un esplicito, per quanto indiretto, rimando al fascismo nel nome del cane, Tripoli. Ora il nome Tripoli non si riferisce in particolare nel film alla conquista della Libia nel periodo giolittiano, ma evidentemente al dominio fascista. Il cane muore travolto da un autocarro e con una revolverata che lo finisce mentre sta agonizzante al suolo, ossia il fascismo e le conquiste coloniali, echeggianti nel nome del cane il quale viene ucciso per così dire come un cane, non possono proseguire. Non solo, gli amici del protagonista, parlando di questo cane, dicono ridendo e irridendo che come cane da caccia farebbe disonore anche all’acchiappacani, ossia si tratta di un cane di nessun valore e comunque è e resta un cane, anzi un “bastardone”, cane e bastardo che sono termini che si citano in genere in contesti di totale negatività, appunto un’allusione piuttosto forte contro il fascismo e contro le mete di grandezza, di conquista. Il ferroviere raffigura comunque su di un piano più o meno indiretto proprio l’ambiente politico della sinistra soprattutto comunista. Accanto dunque ai grandi temi esistenziali di cui sopra, intramontabili e comuni a tutti i tempi pur nella diversa sfaccettatura data loro nel succedersi delle epoche e nella soggettività degli artisti che li raffigurano, occupa spazio rilevante e significativo nel film una presentazione indiretta e non positiva della politica attinente al periodo storico connotato soprattutto dall’avanzata e consolidamento delle due fondamentali ideologie di sinistra, del comunismo in primo luogo, ma anche dell’alleato socialismo. Inoltre, è identificabile – ad un lavoro profondo di analisi di ciò che è oggettivamente quanto indirettamente implicito alle immagini e alla loro collocazione strategica nella spazialità della vicenda filmica, ma comunque identificabile ad un’analisi semantica che vada in profondità – una presentazione della religione come ideologia di potere. Per chiarire il concetto del metodo indiretto nella presentazione della realtà politica: Germi, nella sua critica non affonda la lama direttamente al cuore dei principi dell’ideologia di sinistra, né tanto meno della religione, oggettivamente non si riscontra nel film nessun discorso esplicito da nessuna parte in merito ai principi e neanche ad eventuali partiti o alla Chiesa né tantomeno alla fede. Si tratta di una caratteristica fondamentale della mente simbolica e immaginifica di Pietro Germi che, grazie ad essa, sul piano conscio e inconscio fornisce le sue rappresentazioni di significati non solo espliciti né di sola superficie, ma anche e soprattutto meno visibili i quali strutturano nel profondo e reggono dal profondo lo scheletro concettuale ed emozionale dei suoi messaggi, ciò che rende i suoi migliori film veri pezzi d’arte. 

Verranno presi dunque in considerazione in questo studio i tratti essenziali che informano il significato espresso nel film unitamente ad ulteriori dettagli rilevanti tralasciando particolari pure interessanti, ma non di primaria importanza.  

Onde circostanziare l’analisi critica dell’opera, precede necessariamente una sintesi a grandissime linee della trama.

Il protagonista Andrea Marcocci, interpretato da Pietro Germi in modo si potrebbe dire insuperabile, lavora come macchinista in prima nelle Ferrovie dello Stato. Vive a Roma con la famiglia formata dalla moglie e da tre figli. È un uomo dai sentimenti estremi, frequentatore assiduo dell’osteria dove si ritrova con i suoi amici, tra cui il suo più caro amico Gigi Liverani interpretato ottimamente dall’attore Saro Urzì e il sor Ugo, il proprietario del locale impersonato altrettanto ottimamente dal caratterista Amedeo Trilli. È impulsivo, capace di dire pane al pane e ormai incapace di illudersi, molto legato ai valori della famiglia tradizionale, che ritiene in linea di massima validi per tutte le stagioni, ossia anche nel nuovo contesto storico nel quale le giovani generazioni si dimostrano più permeabili ai cambiamenti, all’abbandono della tradizione. La figlia Giulia, interpretata da una bella e brava Sylva Koscina, resta incinta senza essere sposata e non sposerebbe Renato Borghi, impersonato dal valente Carlo Giuffré. Pur essendo Renato l’uomo responsabile della sua gravidanza, è più attratta da un altro uomo che sembra amarla di più e si sposa solo perché il padre lo impone a lei e all’uomo che per così dire fa il suo dovere senza convinzione, solo per le convenienze sociali, mentre per Giulia tale matrimonio riparatore è fonte di sofferenza mancando in esso, almeno apparentemente, l’amore, soprattutto in lei stessa. Il figlio Marcello non trova lavoro e pare non lo voglia trovare, sembra essere uno scioperato, frequenta brutta gente, gioca d’azzardo, si indebita, tenta di rubare i gioielli della madre per saldare i suoi debiti a malavitosi che lo minacciano di morte se non pagasse. Entrambi i figli si trovano in contrasto generazionale con il padre padrone, violento nelle sue reazioni – caccerà via i figli dalla casa in seguito alla non condivisione dei loro modi di vivere –, un padre tenace nel conservare lo status quo familiare e sociale di sempre, come se tale schema di valori fosse in grado di superare il succedersi delle epoche pur rimanendo sempre uguale a se stesso,  ossia non potesse mai tramontare in quanto considerato base della vita in tutti i tempi, questo malgrado i traballamenti in atto sulla spinta del nuovo. Sara, la moglie di Andrea, interpretata magnificamente dall’attrice friulana Luisa Della Noce, è donna che ha alto il valore della famiglia alla quale dedica la sua esistenza e per la quale si sacrifica senza risparmiare energie, subisce gli ordini del marito e talora anche le sue percosse, arriva anche a credere di odiarlo per questo, tuttavia tiene coeso il gruppo familiare, non si ribella, per lei la funzione della donna è quella di moderare la natura violenta maschile sopportandola per amore della famiglia – al proposito, quando il marito va dai Borghi per costringere Renato al matrimonio riparatore, essa, vedendolo partire da casa così adirato e furioso, gli dice appunto come con la prepotenza non si raggiunga nulla. Tuttavia Sara, pur insegnando la non violenza in famiglia, non insegna tout court a subire, al contrario insegna a capire come la violenza porti solo violenza, ossia non è donna debole, come vedremo, anche se dolcissima. Per concludere il cenno alla trama, nella fase finale relativa alla festa di Natale, il ferroviere, che ha subito precedentemente un infarto grave dovuto principalmente all’assunzione ad oltranza di alcol, muore riconciliato con i figli, circondato dagli amici e dagli affetti familiari. Questo per delimitare a molto grandi linee i poli principali della vicenda. Per la parte relativa alla politica si rimanda al prosieguo dell’analisi, come pure ai cenni sulla religione. 

Un chiarimento preliminare riguardante quella parte della critica che considera Il ferroviere un film intriso di sentimentalismi e di valori anacronistici alla Edmondo De Amicis (Oneglia 1846 – Bordighera 1908). Vero è che nel film di Germi sono espressi i sentimenti che stanno alla base della vita, tra gli altri: l’amore, gli affetti, il senso del dovere e dell’onestà, dell’amicizia, valori che di per sé non sono anacronistici né tanto meno sono nel film sviliti a sentimentalismi che rappresentano il falso dei sentimenti. Per abbozzare in merito un solo fugace raffronto con il libro Cuore (1886): Sara non ricatta moralmente i figli come invece fa la madre con il figlio in Cuore. Per quanto riguarda comunque quest’ultimo, oggettivamente tutt’altro che un bel libro, va detto che, perlomeno, non è stato e non è il libro più adatto a formare generazioni di delinquenti e di drogati, di parricidi e matricidi, questo pur con tutti i suoi sentimentalismi e i suoi limiti. 

Iniziando dunque la critica relativa al film, perno centrale della diegesi è la tecnica dell’analessi o flashback che si inserisce qui e là attraverso i pensieri e ricordi espressi con voce fuori campo dal piccolo Sandro, interpretato da un ottimo Edoardo Nevola, personaggio che ha il ruolo di trait d’union degli eventi connotanti la vicenda, ciò che appunto funge da collante delle varie esperienze dei membri della famiglia. In generale le voci narranti fuori campo nei film costituiscono un punto debole e anche debolissimo della rappresentazione cinematografica che non dovrebbe mai servirsi di esse tranne che, eventualmente e del tutto brevemente, nei titoli di testa e di coda, titoli che sono esterni al film vero e proprio. Non è così in questo caso, che è un riuscitissimo esempio di narrazione fuori campo, comunque non eccessiva: i pensieri del bambino costituiscono un modo di comunicazione molto piacevolmente coinvolgente anche grazie alla particolare voce del personaggio, lievemente stonata qui e là e infondente in certo qual modo una disposizione di tenerezza in più. 

Quanto alle eccellenti inquadrature che compongono il film, Germi, tecnico espertissimo, dava la massima importanza ai movimenti di macchina, dinamici e veloci, ma anche lenti e lentissimi. Preparava il quadro contenente ogni immagine nei minimi particolari, curava al millimetro le distanze tra le persone, gli oggetti, nonché i passaggi da un’inquadratura all’altra, da una sequenza all’altra sia come montatore, abilità in cui eccelleva, sia con i movimenti stessi, così da dare perfetta continuità e collegamento anche a prospettive diverse e ad eventi diversi. È stato definito da Alfredo Giannetti per la sua straordinaria abilità tecnica con la metafora di artigiano del cinema, da Fellini di grande falegname. Non era né un artigiano, né un falegname per quanto grande. Germi era un artista straordinario e un perfezionista quanto a tecniche cinematografiche che dominava ampiamente e di cui si serviva per ottenere i significati che gli interessava esprimere per la migliore riuscita dei suoi film, dei messaggi in essi contenuti – i tre capolavori sopra citati sono densi di idee. Ricapitolando: era pignolo per luci, controluci, chiaroscuri, dinamica delle angolazioni all’interno delle sequenze e da una sequenza all’altra, angolazioni prospettiche degli attori, degli spazi, passaggi da un tipo di campo all’altro, in breve: era  attentissimo all’estetica delle immagini in tutti i dettagli, estetica che è fattore primario e fondamentale della semantica artistica non solo conscia e di superficie, ma inconscia, profonda, espressa al livello più originario dei significati proprio nelle immagini. Il suo bianco e nero è fornito non solo di bellezza di superficie, ma di significati simbolici profondi. Per fare solo un esempio scelto fra tutte le inquadrature una più bella e significativa dell’altra accenniamo al chiaroscuro in cui Sandrino arriva nell’appartamento dei Borghi dove la sorella sta partorendo, un ambiente in cui non è proprio di casa anche se lo conosce così che chiede timidamente Permesso? per entrare. Il primo piccolo ingresso dell’abitazione, buio, è collegato al corridoio, la luce del quale tuttavia non lo coinvolge in nessuna misura, come fosse del tutto separato da esso. Una luce bianchissima si introduce con Sandrino dalla porta che il piccolo apre ad angolo acuto trascinando con sé la luce esterna che non si diffonde nell’ambiente, ma solo al suolo e in parte sulla sua figura quasi sia un’eccezione che il buio pur fitto non riesca ad inghiottire. In tale chiaroscuro segnato dal forte contrasto di oscurità e luce l’unico segno di vita viene portato dal bambino e dalla luce che, detto con un ossimoro, lo segue come ombra luminosa e lo avvolge, il tutto in un’immagine esteticamente e semanticamente preziosa. Sandrino entra in un ambiente senza luce in cui si distingue a malapena o per nulla la spazialità delle pareti, un ambiente che non ispira vita e di fatto la vita che sta per venire alla luce nella casa, viene metaforicamente all’oscurità, nasce già morta. La luce dunque è fuori da quella casa, è dove stava il bambino prima di entrare e il suo raggio si insinua per la stretta prospettiva dell’angolo di apertura. Sul piano semantico intrinseco all’immagine è come se il bimbo avesse l’esperienza di un’oscurità spiacevole, di un contesto che lo impaurisce in quanto appare misterioso anche se appartenente alla casa di Giulia e Renato a lui nota – Sandrino non ha in generale paura del buio, più volte esce da solo di notte senza alcun problema, anche nell’occasione il piccolo percorre il cammino senza alcuna esitazione né tantomeno paura della mezzanotte. Il bimbo dunque squarcia quell’oscurità facendo entrare la luce che lo accompagna dall’esterno quasi proteggendolo nella sua simbologia di vita – il piccolo non chiude la porta, non chiude fuori la luce, la trascina con sé nel buio. La perplessità nell’entrare è, come accennato, indice di paura di fronte a una situazione inquietante – Sandrino non cerca di accendere la luce, ma resta al buio. Un’immagine che nella magnifica estetica del più perfetto e suggestivo chiaroscuro associa semanticamente la più sinistra personificazione del buio così intenso che il corridoio illuminato e pur non separato da porte dall’ingresso stesso non vi proietta la sua luce. Il buio, di per sé nella sua mancanza appunto di luce, si presta per eccellenza a simboleggiare la morte e in tale buio che spaventa il bambino sta la sensazione inconscia di morte che tuttavia non lo riguarda essendo il piccolo seguito dalla luce – sul significato profondo della morte del bimbo di Giulia e sulla luce che segue Sandrino nell’oscurità tanto fitta si vedano i dettagli esegetici nel prosieguo di questo studio. Successivamente il piccolo entra nella luce del corridoio che appunto non ha cancellato la densa oscurità dell’ingresso e la sua sinistra semantica, semplicemente la lascia alle spalle, ma sempre presente, ossia il corridoio illuminato pare non essere collegato all’ingresso, come se il più simbolico buio appartenesse a un altro mondo e di fatto si tratta di un altro mondo in contrasto con quello della vita, un mondo oscuro e silente e in attesa, appunto all’ingresso, nella saletta d’aspetto per così dire,  che nel contesto non risulta essere luogo di attesa di vita. L’avere evidenziato tanto nettamente la differenza tra il vano di attesa e il corridoio quanto a oscurità e luce ha il suo effetto estetico e semantico importante, ribadendo: si tratta di una simbologia che divide nettamente la luce dall’oscurità, metaforicamente la vita dalla morte e nell’ingresso tanto oscuro non sta la vita portata solo da Sandrino che fa entrare la luce con sé, luce che non illumina l’ingresso, ma solo la sua figura e il suolo su cui cammina.

Fine della prima puntata

Analisi e interpretazione di

Rita Mascialino

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