A San Lorenzo Bellizzi ci arrivi (non per caso) scendendo dalle alture del monte Sellaro con diversi spettacolari tornanti che sembrano spaccare in due il paesaggio sottostante: da un lato le misteriose Timpe di San Lorenzo, luogo di anfratti frequentato da monaci ascetari bizantini intorno all’anno Mille e poi da briganti al tempo dell’annessione al Regno d’Italia, dall’altro le colline coperte di vegetazione. Lo scenario intorno è ancestrale, assai di più di quanto “Il buco” ha lasciato intravedere nelle sale cinematografiche, con qualche spezzone di ripresa dinanzi all’abisso del Bifurto, intorno alle grotte e ai precipizi incastonati tra le timpe. A fronte di tanta grandiosità naturale vi è un piccolo paese, un dedalo fitto e intricato di stradine che si dipanano dinanzi a casette schierate identiche quasi tutte raggiungibili con qualche gradino. Le casette sono le stesse che sono state edificate agli inizi del secolo scorso, molte solo ad uno solo livello, alcune con i muri lesionati dai terremoti, addossate l’una alle altre sembrano aggrapparsi ai fili della corrente per resistere. Alcune finestre sono così povere che, dietro gli scuri, il telaio contiene solo piccole porzioni di vetro, come se anche la luce qui fosse un lusso troppo caro per potersela permettere in casa. Penso di averlo girato tutto ma non ho trovato manco un palazzo padronale e neanche una chiesa abbastanza alta da svettare sulle case. Solo, insistito e anche questo lontano nel tempo, il segno della “falce e martello”, anche questo poverissimo, senza scritte minacciose, a volte inciso nell’intonaco raro di qualche parete, quello che ricopre le pietre più esposte per proteggerle dai venti di tormenta quando durante l’inverno soffiano l’aria gelida dalle timpe innevate. E’ una povertà che commuove, quella di San Lorenzo. Nel borgo antico abitano venti famiglie, quasi tutte quelle minuscole abitazioni sono deserte: chi è andato via difficilmente tornerà più ad abitarle, per quanto miserabile possa essere il suo presente lontano da qui. In strada trovo un anziano dignitoso e socievole, mi saluta e chiede se vengo anch’io dalla festa “di vinticinche” che si è festeggiata quel giorno al Santuario della Madonna delle Armi, e se c’era gente sotto le querce del Sellaro a mangiare e bere e a suonare con gli organetti, i tamburelli e le cornamuse. All’ingresso del paese una piccola folla, soprattutto stranieri, alcuni amanti del rafting o di speleologia con il fuoristrada parcheggiato; per loro c’è qualche B&B ristrutturato. Una minuscola osteria offre loro zuppe di legumi, prosciutto crudo e formaggio fresco di capra; anche fusilli fatti in casa: sembrano stupefatti e mentre mangiano all’aperto continuano a guardarsi intorno. Il loro stupore mi inorgoglisce e mi fa vergognare. Quando rimetto in moto penso che, s’io fossi di San Lorenzo, a ripartire, la nostalgia mi avrebbe mangiato vivo.
L’ingresso dell’Abisso del Bifurto o della Tana del Lupo, come la chiamavano i pastori del Pollino, tra gli anfratti rocciosi che furono il riparo di monaci basiliani e di briganti, tra Cerchiara di Calabria e San Lorenzo Bellizzi. Scavato dall’acqua nella roccia, scende a precipizio nelle viscere della terra per 683 interminabili metri che fanno di questa cavità la più profonda d’Europa. Scoperto nel 1961 da un gruppo di speleologi piemontesi, l’impresa è stata celebrata nel film Il buco di Michelangelo Frammartino (premio speciale alla 78ª Mostra del cinema internazionale di Venezia).
La Grotta delle Ninfe (Cerchiara di Calabria).
Per i sibariti – che 500 anni a.C. avevano scoperto le proprietà miracolose delle acque sulfure che sgorgano nella grotta a 30 gradi centigradi – non poteva che essere un luogo abitato dagli dei: la dimora delle Ninfe Lusiadi ma anche l’antro nascosto in cui era custodito il talamo della dea Calipso, la mitica divinità marina che si innamorò di Ulisse. Incastonata tra due rocce calcaree imponenti che creano uno stretto canyon, si apre meravigliosamente, in alcuni tratti, verso il cielo.
Testi: Filippo Caira
Fotografie: Filippo Caira
Venzone
Testo: Gianni Strizzolo
Fotografie: Photolife di Gianni Strizzolo
Il nome Venzone è di origine prelatina e deriva dal nome del torrente Venzonassa, che scorre nei pressi del borgo. Il toponimo deriva dalla radice prelatina *av-au, che significa “corso d’acqua”.
La prima attestazione del nome Venzone risale al 923 d.C., in un documento in cui viene citato come Clausas de Abiciones. In seguito, il nome ha subito diverse variazioni, assumendo le forme Albiciones, Aventinone, Avenzon e Avenzone, prima di giungere alla forma attuale, Venzone, che è stata adottata ufficialmente nel 1925.
Il nome Venzone è quindi un toponimo idronimo, ovvero un nome di luogo che deriva da un elemento naturale, in questo caso un corso d’acqua.
La chiesa di Sant’Andrea apostolo è un edificio religioso di grande importanza storica e artistica situato nel comune di Venzone, in provincia di Udine. La chiesa è dedicata all’apostolo Andrea ed è il duomo della città.
La chiesa venne edificata per la prima volta nel VI secolo, ma fu completamente ricostruita nel XIII secolo su progetto di Giovanni detto Griglio da Gemona, autore anche del duomo di Gemona del Friuli. La chiesa fu consacrata nel 1338 dal patriarca Bertrando di San Genesio.
La chiesa ha una pianta a croce latina con una sola navata e un ampio transetto. La facciata è in stile gotico e presenta un portale con archivolto a sesto acuto, sormontato da un rosone. Il campanile è a torre, con una cella campanaria a bifore.
L’interno della chiesa è ricco di opere d’arte, tra cui un polittico del XV secolo, un crocifisso ligneo del XIV secolo e un organo del XVIII secolo.
Il duomo fu completamente distrutto dal terremoto del 1976, ma fu ricostruito per anastilosi tra il 1988 e il 1995, ricollocando le pietre originarie.