
L’osservatorio di Cibis: IN MORTE DI BRUNO PIZZUL
Cultura e orgoglio identitario
di un gigante indimenticabile
La serata – il tradizionale incontro natalizio dell’Udinese con paron
Pozzo – stava andando per le lunghe, scandita dalla verve travolgente
di un giovane intrattenitore “televisivo”, preoccupato di non lasciare
tempi morti e per questo tambureggiante e invasivo, decisamente sopra
le righe per le nostre stringate abitudini. Noi, i cronisti di casa, a
guardarci l’un l’altro come chi si sente fuori posto, in difesa
davanti a quel profluvio di parole e di battute. A un certo punto
Bruno Pizzul si alza, si ficca nel giaccone color antracite
controllando che nella tasca non mancasse la dotazione di sigarette, e
prima di andarsene si fa dare il microfono: “Graciis al paron pa la
biele serade, ogniben a l’Udinese e a voaltris, a lis vuestris
fameis”. In un attimo, con il breve saluto in friulano, aveva
ridisegnato il contesto, ristabilito le misure e i decibel, riscattato
i nostri imbarazzi. L’avrei abbraciato.
Dell’autorevolezza che gli apparteneva per nobiltà d’animo, per stazza
fisica, e per una carriera professionale di prim’ordine trascorsa
negli stadi di tutto il mondo e nelle manifestazioni più prestigiose,
Pizzul non ha mai abusato. Né aveva bisogno di forzature, bastava che
rimanesse se stesso. E in quel “se stesso” l’essere friulano nonché
uomo dal profumo mitteleleuropeo, e testimoniarlo con orgoglio pur
senza forzature, aveva valenza primaria come seme identitario, come
deposito di valori morali e culturali rappresentati anche dalla
lingua.
Il suo numero di Milano me l’aveva dato mamma Ada, che avevo chiamato
a Cormons: una voce gentile e rassicurante non meno che decisa, a
riflettere una personalità forte e autosufficiente. Diventammo amici a
distanza.
Come responsabile dello sport del “vecchio” Messaggero Veneto, una
volta ricalibrata e messa a punto la redazione, e raggiunto un livello
qualitativo che stava staccando la concorrenza, mi frullava l’idea di
aggiungere una firma di prestigio per infiocchettare il prodotto
Udinese. Bruno Pizzul – primo moviolista con Carletto Sassi, voce
azzurra e per di più friulano – sarebbe stato il massimo. Non lo
conoscevo di persona, neppure mi facevo illusioni paventando
l’irragiungibilità di personaggi di quel calibro. Feci la telefonata.
Rispose la segreteria telefonica, registrata dalla sua voce
inconfondibile, rotonda e pastosa: “Cjacarait dopo la pivete”.
Richiamò lui: sì, avrebbe scritto volentieri per il giornale friulano
e dei friulani. I soldi erano pochi? Non era importante. “Cuant si
scomençie?”.
Da allora sono passati oltre 30 anni e in tutto questo tempo Bruno non
ha mancato uno dei suoi appuntamenti settimanali con i lettori, una
scadenza che lo faceva sentire vivo e partecipe in mezzo alla sua
gente. Si trovasse in capo al mondo, l’articolo arrivava puntuale,
sempre, se serviva grazie al ponte di sua moglie, la signora Maria.
Articoli speciali, solidi nelle argomentazioni e impeccabili nella
forma in virtù della preparazione classica. Articoli sereni, che
affrontavano l’argomento con equilibrio, senza punte acuminate,
percorsi dal disincanto di chi sa di non trattare dei destini
dell’universo.
Ci vedevamo allo stadio: un saluto e la battuta a mo’ di bonario
rimprovero: “Cibis, astu finît di fâ casin?”. Si riferiva allo spirito
battagliero (che fu) del sottoscritto. Giù, in sala stampa, lo
aspettava leggendo un libro la signora Maria, che mi onoravo di
omaggiare rigorosamente in friulano. Guidava lei perché Bruno non
aveva la patente e guidava al massimo l’amata bicicletta. La mamma e
la moglie, bussole e approdi di un grande professionista che fino a
poche settimane fa, con generosità nonostante l’età, non si negava
all’incontro anche nel più piccolo dei nostri paesi. Con disponibilità
e con piacere, per parlare di calcio e di buon vino, senza i quali la
vita – così diceva – perderebbe colore.