PROVOCAZIONE SESSUALE AL FEMMINILE
di
RITA MASCIALINO
Introduzione
Nell’occuparci della provocazione sessuale al femminile osservata entro il contesto fornito dal particolare rapporto tra vittime di violenza sessuale e aggressori, facciamo precedere una nota di semantica linguistica sui tratti fondamentali connotanti il concetto della provocazione. Al proposito ci riferiamo al latino di cui l’italiano è la diretta prosecuzione. Venendo all’infinito latino provocare, vediamo come vocare significhi chiamare a voce, quindi facendosi sentire sul piano acustico concreto e metaforico; quanto alla preposizione latina pro, essa esprime nella sua concreta spazialità primaria, lasciando ulteriori significati derivati, fuori, davanti, quindi provocare come chiamare fuori, davanti, in tal senso anche sfidare sul piano concreto e metaforico; ancora all’interno della medesima spazialità anche il chiamare fuori, davanti, precipuamente in azioni giudiziarie, in processi di tribunale, dove la presunta vittima chiama attraverso l’avvocato, l’advocatus, fuori e davanti coloro che le abbiano arrecato un eventuale danno e simili. Si tratta di un verbo transitivo che nella sua diatesi attiva implica un’azione da parte del soggetto, appunto il pro-vocare. In altri termini: tale verbo sottende un’azione da parte di qualcuno che, in un modo o in un altro, provochi, ossia chiami fuori o davanti, significato che sta alla base degli ulteriori contesti in cui il termine si può venire a trovare – le spazialità originarie o antiche e anche antichissime delle parole non vengono cancellate nel prosieguo delle epoche, bensì mantengono per tempi lunghissimi il medesimo scheletro semantico primitivo, senza che scompaia propriamente, si fa solo meno evidente nella successiva costellazione concettuale di cui si arricchisce. Sempre restando quindi nella medesima spazialità di base del chiamare fuori e davanti, si inserisce anche il significato di provocare come causare un determinato effetto, ossia il causare si sovrappone a un chiamare fuori, a un fare uscire allo scoperto chi o che cosa sia, per così dire con una metafora, il colpevole dell’effetto.
La provocazione da parte della donna nell’ambito sessuale
Dopo la breve premessa finalizzata ad abbozzare le coordinate generali relative al concetto della provocazione, seguono alcune riflessioni sull’argomento specifico della provocazione sessuale al femminile.
Si è soliti qualificare il corpo della donna come più o meno provocante. Questo ci dice che siano in primo luogo le fattezze fisiche in sé della donna a provocare eventualmente nel maschio l’eccitazione sessuale, a chiamarla fuori, quasi, dico quasi, come ne fossero la causa – in realtà l’eccitazione maschile in sé si realizza del tutto a prescindere dalla provocazione femminile, in quanto è un meccanismo automatico che segue proprie leggi che tutti i maschi conoscono. Possiamo in questo caso non intenzionale da parte della donna porre la provocazione femminile un po’ come una torta la cui vista faccia venire agli affamati o ai golosi magari voglia di mangiarla senza che la torta abbia l’intenzione di farsi mangiare. Questo ci dice implicitamente e parallelamente come l’eccitazione sessuale del maschio possa verificarsi provocata dalla vista – o dall’immagine mentale – del corpo della donna in quanto questo è lo strumento più facile e più consono a disposizione in natura qualora l’uomo voglia scaricare l’eccitazione stessa. La semplice presenza della donna dunque, entro quanto testé accennato, vale pertanto come presenza della preda sessuale maschile più comune, per così dire. Solo quando la donna esibisca le sue bellezze in modo vistoso assieme a comportamenti specifici messi in atto, si può oggettivamente ritenere che, inconsciamente o consciamente, voglia provocare – o chiamare fuori – nel maschio un’eccitazione sessuale, questo anche qualora la donna asserisca di non averne alcuna intenzione – intenzioni a livello inconscio o conscio hanno sempre il medesimo valore intenzionale. Si tratta in questi casi probabilmente anche di una memoria ancestrale femminile di esibizione di sé finalizzata ad avere vantaggi dalla messa a disposizione di sé ai maschi che da sempre hanno retto la società umana e prima ancora generalmente scimmiesca e anche di una memoria ancestrale maschile di considerare tale esibizione di sé da parte della femmina: arcaicamente, nelle tribù africane ad esempio, le bambine di sette o otto anni si mettevano nude davanti al gruppo di maschi giovani seduti a terra non nudi e cominciavano per così dire a ballare, a muoversi freneticamente facendo vibrare il corpicino finché uno dei maschi veniva provocato sessualmente e saltava in piedi, segnale che quella sarebbe stata la sua futura sposa e così per ogni eccitazione maschile con le varie bambine. Dunque, onde evitare i due tipi di provocazione, quella del corpo in sé senza l’intenzione consapevolmente agìta e quella dell’esibizione del corpo con intenzione consapevolmente agìta, in tempi antichissimi – e anche attuali in qualche cultura –, la donna doveva e deve nascondere il suo corpo e anche il suo volto sotto un burqa nero o di pochi altri colori, ciò che, se evita l’esibizione del corpo della donna, comunque solo attutisce o rallenta il citato effetto della donna in sé quale preda sessuale, quale strumento sessuale per eccellenza di un uomo. Nei casi di stupro – stupro dal latino stupeo-es-ui-ēre, restare instupidito, da cui stupidus e anche stupor-stuporis, ossia stupore, instupidimento, inoltre appunto anche il famigerato stuprum, onta, stato psicofisico di disonore derivante dallo stupro o violenza sessuale, stuprum come termine eufemistico (Ernout&Meillet 658-659) –, nei casi di stupro dunque una posizione molto frequente sostenuta dal violentatore è quella relativa alla provocazione agìta dalla donna nei suoi confronti, come se il suo corpo fungendo da provocazione in sé dovesse giustificare in ogni caso la violenza maschile, come se la chiamata fuori della sua eccitazione sessuale fosse intenzionale da parte della donna e non dovuta ai meccanismi intrinseci al sesso maschile. Certo la donna non si può nascondere solo perché altrimenti il maschio si sente autorizzato a servirsene per soddisfare le sue esigenze sessuali. Segue un breve esempio preso dalla Bibbia, quello relativo a Eva, la quale avrebbe provocato Adamo sessualmente, nonché alla trasgressione degli ordini del dio padre – lasciamo qui stare ogni dettaglio nella questione. Si tratta di un mito creato da maschi che proiettano sulla donna i loro desideri colpevolizzandola e risultando così del tutto innocenti in ogni direzione, vedi anche gli insulti dedicati a Eva in tal senso. Risulta senz’altro molto difficile credere che maschi che hanno il meccanismo sessuale citato abbiano avuto bisogno di essere tentati da Eva, mentre il loro sesso era tranquillamente inerte, privo del suo meccanismo centrale. Davvero è stata Eva, ossia c’è stato bisogno della provocazione femminile per dare luogo all’atto sessuale o non è stato l’implacabile meccanismo sessuale maschile a provocarsi da sé e a utilizzare la donna come compagna consenziente o facile preda non consenziente? Certo esiste nell’Eden anche la presenza del serpente, simbolo fallico maschile per eccellenza, che ha tentato Eva in varia direzione, per cui, volendo restare nel mito prodotto dagli uomini, ossia dai maschi, sarebbe stata Eva a essere provocata, tentata dal fallo e dal desiderio sessuale maschile, ingannatore viste le note caratteristiche comportamentali di tale temibile animale. Comunque, certamente la donna non è sempre innocente nel settore. Quando esibisce le sue grazie in misura estremamente visibile, non può non esserci il piacere della provocazione. Allora la donna deve vestire il burqa perché non si possa dire che essa provochi in qualche modo l’uomo? Altrettanto certamente no, è giusto che essa abbia la gioia e la soddisfazione di sentirsi bella e desiderata, ma est modus in rebus: sunt certi denique fines, quos ultra citraque nequit consistere rectum, ‘c’è una misura nelle cose: vi sono infine precisi limiti al di là e al di qua dei quali non può sussistere il giusto’ (Orazio: Satire I, 1, 106-107). Ora il concetto di limite, per quanto possa essere percepito come riduttivo della libertà, non è sempre negativo, anzi: il fine stesso, lo scopo più positivo, la meta condividono necessariamente il concetto di limite, di termine, come il porre un traguardo alla propria azione pratica o al pensiero. Si tratta di fissare – da findo–fissum–findere, dividere, fendere, comunque porre un limite da non oltrepassare –, ossia di delimitare la propria attività così da sapere quali vie scegliere, come delimitare l’area della ricerca, senza andare fuori argomento. Riguardo al tema in questione, se una donna abbia come fine o meta quella di attrarre i maschi e farsi ammirare stimolando la loro sessualità, allora è del tutto corretto e lecito rendersi desiderabili sessualmente, abiti compresi mirati allo scopo. Ma se questo non dovesse essere il fine, la meta da raggiungere, come ad esempio nell’attività politica o di docente o comunque intellettuale, scientifica e affini – da adfinis, vicino al limite, nei pressi del fine-confine –, allora l’aspetto non dovrebbe essere identico a quello finalizzato a provocare l’eccitazione, a stimolare la sessualità, in quanto tale identità sarebbe segnale fuorviante, incoerente con la meta diversa. Questo senza, come anticipato, che si arrivi agli estremi del burqa, ovviamente, quos ultra citraque, come sopra. Un abito che stimoli la sessualità può essere facilmente frainteso, equivocato, come un chiamare fuori la disponibilità alla sessualità, quasi la donna si rendesse disponibile all’atto sessuale, mentre magari vi è solo la disponibilità a essere ammirata. Allora lo stupro è colpa di come si acconci la donna? No, la provocazione femminile viene spesso o quasi sempre tirata in ballo nelle azioni di violenza sessuale maschile a prescindere dall’aspetto che voglia assumere la donna. Il fatto è che il corpo femminile, come più sopra, è di per sé capace di eccitare un uomo, per cui la sua esibizione ad oltranza può, oggettivamente, dare il segnale della provocazione. L’uomo deve saper controllare il proprio istinto sessuale, ma è noto da tempi immemorabili che non tutti gli uomini lo sappiano fare, ciò dovuto al loro passato ancestrale, quando stavano sugli alberi, dove non vi erano limiti alla loro libertà sessuale.
Per tutto ciò il detto oraziano relativo al modus in rebus e al limite da identificare nelle varie circostanze, nella fattispecie quanto a possibilità della provocazione per così dire intrinseca al corpo femminile, ha la sua validità perenne. La donna, pur avendo il diritto di vestirsi come vuole e come ritiene per altro a suo rischio e pericolo, deve vestirsi anche di buon senso, ossia non esagerare nell’esibizione di sé se non sia interessata a dare segnali di disponibilità all’uomo.
Quanto all’uso della violenza sessuale da parte del maschio nei confronti della donna, questo è un altro discorso: riguarda il maschio e le sue abitudini ancestrali che deve dismettere al più presto, i tempi non sono più quelli dei salti da un albero all’altro nella più totale libertà possibile all’epoca.
Parallelamente anche la donna non è più sull’albero nella foresta, per cui, consapevole dell’attrazione che il suo corpo esercita sul maschio e consapevole di avere a che fare con un maschio molto più forte di lei, può – accanto a tutte le eventuali leggi a suo favore – saggiamente porsi in ogni caso e a prescindere dalle leggi appunto che ne garantiscono l’uguaglianza con i maschi, uguaglianza che non ci può essere stante la maggiore forza fisica del maschio, può appunto porsi qualche limite e qualche prudenza in più, meglio qualche prudenza in più che una in meno, la quale può esserle fatale – sappiamo almeno dal Giardino dell’Eden quanto sia abile il maschio-serpente come ingannatore, ma sappiamo anche che nel branco esisteva la prostituzione alimentare (Chiarelli 2003: II, 44). Non si tratta di limiti insopportabili, solo, a libera volontà dell’utente, di un po’ di prudenza – prudentia nel significato latino, tra gli altri, di avvedutezza, intelligenza, così come l’homo prudens era sì persona prudente, ma in quanto intelligente, avveduta, consapevole dei pericoli, dei rischi che doveva affrontare nel modo migliore per uscirne vincitore.
Per concludere, un esempio, analogico quanto paradossale, tra i molti possibili concernenti il concetto della provocazione in altro ambito.
Qualora un automobilista dimentichi un finestrino aperto, si può trovare la multa comminata dal vigile urbano essendo incorso nel reato di istigazione al furto, per chiarire: se il ladro gli ruba il telefonino lasciato in auto magari in bella vista e in aggiunta con il finestrino abbassato, il depredato deve pagare anche la multa per avere addirittura istigato il prossimo al furto – istigare dal latino instigare nel significato concreto e metaforico di pungere, spronare, possiamo dire di provocare.
Rita Mascialino