Terza e ultima puntata – “IL FERROVIERE di Pietro Germi” 

di Rita Mascialino

Passando ora alla presentazione della società fuori dai confini della famiglia, una critica non lieve viene espressa nel film nei riguardi della classe dei medici, di chi dovrebbe avere una funzione di sostegno e aiuto di coloro che si rivolgano ad essi per analisi e controlli dello stato di salute, di cure per la conservazione della vita, più prezioso bene dell’uomo. A proposito della visita medica cui viene sottoposto il ferroviere accusato di bere troppo, ciò per cui non potrà più conservare il lavoro di macchinista in prima – conduceva un rapido –, viene messa in evidenza la mancanza di umanità dei medici e del personale verso il protagonista, trattato come fosse al loro servizio e non viceversa, non avesse quindi diritti, neanche quello al saluto. Quando Marcocci va a consegnare il documento per la visita medica decisa in seguito al grave errore da parte sua di non aver visto un segnale rosso che gli imponeva di fermare il treno, saluta l’impiegato che non lo guarda neanche in faccia, ma non ottiene risposta e gli viene dato con tono infastidito e sgarbato l’ordine di aspettare il suo turno. Il medico dice molto seccamente al ferroviere, dandogli  del tu, di smettere di bere senza comunicargli null’altro sul suo stato di salute, né risponde agli amichevoli cenni di dialogo di Marcocci, ossia manca di qualsiasi umanità e anche di semplice educazione, anzi il medico alla fine della visita dice all’oculista “Io ho finito, è tuo”, come se l’uomo fosse un oggetto, un pacco da scaricare come quelli che si scaricano dai treni. L’oculista stesso, pur non aggressivo, evita qualsiasi forma di dialogo, non ascolta propriamente Marcocci che parla mentre lui gli analizza gli occhi. Lo guarda poi con indulgenza e superiorità e quando Marcocci gli chiede come stia la sua salute sperando in una risposta umana che possa confortarlo, la risposta non viene, solo domina il sorrisetto di sufficienza dell’oculista come forma più comoda di silenzio, comunque di totale disinteresse per la persona. Questo tra l’altro per mostrare nel film come i tempi nuovi non abbiano portato miglioramenti democratici nella società, anche mostrino caso mai un diffuso calo di umanità. 

La scena di centrale importanza per la più chiara rappresentazione dell’atmosfera politica è quella che si svolge nell’osteria del sor Ugo a tarda notte. Come anticipato più sopra, Germi non attacca direttamente i principi del comunismo o del socialismo, dell’ideologia di sinistra, attacca invece direttamente il mezzo con cui i capi politici che rappresentano tale ideologia hanno raggiunto il potere: l’inganno del popolo attraverso lo sbandieramento dei più grandi ideali umani di giustizia e di diritti, rivelatisi alla prova dei fatti come specchietto per le allodole, mero strumento degli interessi di pochi. Ad un certo punto Marcocci parla dei sindacati, che successivamente compariranno con la loro sigla stampata CGIL UIL CISL in un manifesto che indirà lo sciopero nazionale delle Ferrovie dello Stato. Ne parla mettendo in evidenza la loro disonestà, l’inganno perpetrato ai danni del popolo cui hanno fatto credere che avrebbero rappresentato i diritti dei lavoratori, il diritto alla giustizia sociale. Nel dire ciò il ferroviere di Germi  si alza in piedi come in una presa di coscienza del proprio valore: è stato ingannato, è cascato nella rete dei “dritti” che, mentre lui  assieme agli altri lavorava per pochi soldi, prendevano la tessera del partito e si arricchivano alle spalle degli illusi che credevano di lottare e fare sacrifici per i diritti del popolo, per gli ideali di giustizia, è dunque stato ingannato, ma in compenso lui può stare eretto e portare la testa alta perché non ha ingannato nessuno, è persona onesta. Anche durante la già citata seduta dei sindacalisti, che annunciano la possibilità della proclamazione dello sciopero generale, Marcocci si alza in piedi per parlare, a differenza dell’altro ferroviere sportellista che parla restando molto visibilmente seduto anche se grida da iroso rivendicando delle migliorie più che giuste, ossia sta in posizione comunque sottomessa. Tornando al monologo del ferroviere all’osteria, interrotto solo da qualche cenno di sincero assenso del sor Ugo, gli altri amici e avventori se ne vanno apparentemente disinteressati a discorsi di ideali nei quali ormai non credono come si trattasse di sciocchezze dimostrando con ciò di essersi rassegnati alla falsità dei loro capi sindacali e politici, nessuna rivoluzione viene neppure pensata. L’attacco più duro e più audace è sferrato dal ferroviere addirittura alla Resistenza che tuttavia non viene nominata direttamente, il ferroviere parla della guerra includendo in essa molto chiaramente la Resistenza, cui allude la presenza dei partigiani. Anche qui Germi espone chiaramente le sue idee divergenti da quelle correnti nell’epoca del neorealismo di impostazione ideologica di sinistra. Il ferroviere aveva combattuto per la Liberazione, per i principi predicati dal partito, aveva obbedito agli ordini di sabotare mettendo a rischio la propria vita, come quando aveva rovesciato il treno assieme ai partigiani mentre dall’alto piovevano bombe, tutto ciò per poi accorgersi che non aveva lottato per i diritti e per una più equa giustizia sociale, per il popolo, ma che aveva lottato per consolidare il potere dei capi e dei capetti, dei furbi, degli ingannatori, lavorando poi per pochi denari, tirando la cinghia e non potendo neanche riparare sé e la famiglia dal freddo dell’inverno, facendo umili lavori in ferrovia prima di diventare macchinista in prima. Anche il sor Ugo ricorda il rischio connesso al sabotare e la fiducia negli ideali, la credenza di combattere per la giustizia, per i diritti, convenendo tristemente con la disillusione di Andrea, questo nella visione del mondo del personaggio di Germi. Non vengono dunque attaccati direttamente i principi teorici del comunismo né quelli del socialismo, ma viene attaccato il fatto che i diritti dei lavoratori e l’ideale di giustizia siano stati adoperati dai comunisti e dalla sinistra soprattutto per ingannare il popolo, questo per quanto viene rappresentato nel film. Smascherando Germi l’inganno, sembrerebbe che i principi ideologici si possano salvare non essendo esplicitamente contestati, ma di fatto dell’ideologia non resta niente che si salvi, ossia gli ideali usati per ingannare radono al suolo i principi stessi che l’inganno si porta via. Nel finale del film nulla di politico è presente, solo gli affetti familiari quale unico porto sicuro più caro e da salvaguardare, i sentimenti veri d’amore familiare e di amicizia reggono agli inganni, la sfera personale dunque, non politica.  Molto rilevante è quanto il padre dice a Sandrino nell’osteria – il ferroviere non era più tornato a casa dopo non aver partecipato allo sciopero generale indetto dalle Confederazioni sindacali e dopo aver visto la scritta sul muro di casa che lo definiva “crumiro”. Sandro era rimasto molto male nel non aver avuto dal padre una spiegazione, aveva tenuto la testa alta nell’attesa della spiegazione che non era arrivata, lo aveva guardato dunque apertamente, senza paura, con fierezza, mentre il padre ne aveva schivato lo sguardo perché si era sentito quasi in colpa di fronte al piccolo. Dopo lo sciopero cui non ha partecipato, il padre dialoga con lui come con un adulto e afferma di non essere un crumiro. Dunque non ha disertato lo sciopero per piccoli interessi personali, ma perché non crede più negli ideali che sono stati il grande inganno attuato dalla sinistra. Nell’occasione dà al piccolo quella spiegazione che non aveva dato in precedenza: “Uno si sente importante e poi si accorge che non è vero niente e allora tutto va a rotoli”. Per il ferroviere di Germi gli ideali devono avere un riscontro nella realtà, devono costruire una nuova umanità migliore che in passato, si devono inserire in un ambito di verità e quando diventano strumento di inganno perdono di valore essi stessi mostrando la loro impotenza, così nella visione del mondo di Pietro Germi. E il piccolo lo rincuora dicendogli che l’amico sor Liverani non crede che lui sia stato un crumiro, gli porta dunque la fiducia nella sua onestà da parte dell’amico, dei suoi amici che si ritrovano nell’osteria del sor Ugo. In altri termini: Germi in questo breve dialogo mette in discussione da un certo punto di vista anche il senso del termine crumiro, uno dei caposaldi della propaganda contro coloro che non scioperavano quando venivano indetti gli scioperi dalle confederazioni sindacali dominate dalla sinistra. 

Ricapitolando, particolarmente importanti nel complesso messaggio del film sono sia le scene iniziali che quelle finali recepibili per quanto attiene al loro significato sul piano intuitivo inconscio, ma necessitanti di profonda analisi per il livello della piena comprensione conscia. Nelle prime scene si ha l’arrivo del rapido pilotato dal macchinista Andrea Marcocci cui va incontro il piccolo Sandrino, ossia il bambino va a prendere il padre, la nuova generazione va incontro a quella trascorsa per una visibile continuità di intenti presentata a livello iconico. Nella scena finale del film il figlio maggiore esce di casa per recarsi in ferrovia dove continuerà il lavoro del padre e Sandrino continua ad andare a scuola per preparare così il suo futuro anch’esso in continuità con i principi basilari appresi dal padre. Nella prima notte di Natale rappresentata nel film, come più sopra accennato, Giulia partorisce un bambino che, nascendo morto, non potrà portare avanti i valori nuovi che non si inseriscono nella tradizione giudicata nel film come più sana dei costumi caratterizzanti il dopoguerra – è stato concepito fuori dal matrimonio da una donna per così dire, all’epoca, moderna, che non avrebbe voluto sposare l’uomo padre di suo figlio e da un uomo che non l’avrebbe voluta sposare. In tale notte di Natale, come accennato, il sor Ugo cita la nascita del “bambinello” Gesù che è destinato anch’esso a morire anzitempo e quindi, secondo la visione del mondo di Germi, impossibilitato in prospettiva a portare avanti il messaggio religioso. Emerge dunque molto chiaramente, si fa per dire, il collegamento delle due feste natalizie, incentrate entrambe sulla nascita di Cristo che morirà tuttavia prematuramente, nonché collateralmente sulla morte del bambino di Giulia e sulla morte del ferroviere. Tuttavia vi è una differenza sostanziale: il ferroviere ha chi porterà avanti la sua visione del mondo, ossia i suoi figli, in special modo il suo bambino, Sandrino, che appare destinato a vivere e che comunica al padre come tutto sia tornato come prima, secondo i desideri di quest’ultimo. È come se il ferroviere avesse assolto il suo compito, quello di porre i suoi discendenti su quella che ritiene essere la retta via, non coincidente con le vie dei tempi cosiddetti nuovi, e lasciasse libero il cammino per le più giovani leve, messaggio questo espresso in un capolavoro di opposte e complesse corrispondenze semantiche. Germi cela la sua critica alla religione come ideologia di potere – non alla fede – in dettagli rilevabili solo con profonda analisi, quasi non volesse esprimere troppo apertamente una tale critica e nel contempo non potesse rinunciare ad esprimerla – l’arte, di qualsiasi genere essa sia,  proietta la personalità degli artisti, la loro visione del mondo, inevitabilmente, consciamente o inconsciamente, per dirla con una metafora presa dallo scrittore della Monarchia Danubiana Joseph Roth nel romanzo Das Spinnennetz, La ragnatela: ciascuno è prigioniero della propria ragnatela da cui non può uscire per quanto tenti o creda di farlo. Germi sottolinea inoltre ancora una volta di più come i nuovi valori non siano in grado di strutturare positivamente la società – il bimbo di Giulia nasce morto, non potrà portarli avanti –, mentre proseguono quelli per così dire tradizionali – Sandrino è più vivo che mai ed è frutto di un matrimonio per amore che ha retto e regge alle inevitabili intemperie, porterà quindi avanti i valori in cui crede il padre. Il peritesto del film risulta del tutto coerente con l’interpretazione in questione: Il ferroviere è dedicato alla figlia di Germi, Linda, ancora bambina, il futuro essa stessa, similmente a Sandrino, entrambi figli di Germi come uomo e come regista. 

Per chiarire ancora l’impostazione ideologica di Pietro Germi, segue qui una comparazione con qualche tratto fondamentale dei film relativi a don Camillo e Peppone, diretti dai registi Julien Duvivier, Carmine Gallone e Luigi Comencini. Nel 1946/48 erano stati pubblicati i celebri episodi di Giovannino Guareschi imperniati sulle gesta dei due protagonisti. Dal ’52 in poi è stata realizzata anche la serie spassosissima dei film liberamente adattati secondo i racconti. In essi, prudentemente, non solo non vi è alcuna critica profonda né ai democristiani, né alla Chiesa, né ai comunisti, né ai socialisti, né a nessuno, bensì i due protagonisti, il prete e il sindaco, sembrano essere costruiti appositamente per dare un’opinione amichevole delle due ideologie che non appaiono opposte se non per piccoli screzi infantili presto superati. Tali racconti e film erano finalizzati ideologicamente a fare accettare in una coesistenza possibile, un po’ in un Embrassons-nous, Folleville,la lotta sociopolitica e di classe, cui veniva data la connotazione dell’inoffensività, nella fattispecie vi era in essi una sorta di preparazione al consolidamento dell’alleanza tra Chiesa e comunismo-socialismo su cui non interessa qui soffermarsi. Ben diversamente dunque in Pietro Germi, dove la critica politica, seppure non affatto esaustiva del messaggio del film, va essa stessa più audacemente in profondità e, condivisibile o non condivisibile, comprende, come accennato, un giudizio negativo sulla Resistenza quanto portatrice di ideali non corrispondenti al reale assieme all’opinione negativa sui sindacati e sulla stampa di sinistra, come si trattasse di qualcosa di falso, fatto ad arte per indottrinare il popolo e per rendere possibili le carriere dei “dritti” secondo la denuncia di Germi. In merito, ad un lettore del quotidiano L’Unità, la cui prima pagina è inquadrata molto visibilmente, il barista dice come non sia il caso di dare retta a quel giornale che non sarebbe affidabile. 

Al termine dell’analisi di critica semantica del film nei suoi principali contrassegni, un Leitmotiv drammatico, anzi tragico: il vino, bianco come l’acqua, sparso a misure di litri e mezzi litri in bicchieri vuoti e semi pieni, il tutto ammassato in gran numero nei tavoli dell’osteria del sor Ugo, dove il ferroviere passa molte serate assieme ai suoi amici. Sarà la causa primaria della sua morte. Germi mette in evidenza le bevute fatte in compagnia in mezzo agli allegri e quasi fanciulleschi canti accompagnati dalla chitarra del ferroviere: canti e bevute che sono la manifestazione dell’amicizia di lavoratori che trovano in essi una forma di calore umano che non c’è nelle visite mediche, nelle riunioni sindacali, talora nella famiglia stessa quando investita dal vento nuovo. Qui, come abbiamo visto già più sopra a proposito della gioia in Pietro Germi, il richiamo della tristezza accanto alla gioia non potrebbe essere più evidente: allegria dello stare assieme in amicizia e alcol che condurrà il ferroviere alla morte, come anche nel finale del film: gioia dell’amicizia, degli affetti più veri, amore del ferroviere per la moglie Sara per la quale poco prima di morire suona la sua serenata con la sua chitarra, un amore profondo unito alla buona disposizione verso di lei, unito al riconoscimento del suo valore, e successiva a questa felicità la morte, annunciata con l’infarto verificatosi dopo la riconciliazione con gli amici dal sor Ugo e realizzata con il secondo infarto subito dopo la gioia della riconciliazione con tutta la famiglia nella notte di Natale, come se la gioia durasse solo un momento e richiedesse di essere pagata a così caro prezzo.

Lasciando a ciascuno la libertà di espressione imprescindibile in una cultura democratica, vorrei inserire una digressione sulla critica in linea di massima negativa che Germi dovette subire per la sua posizione politica non di sinistra – neanche di destra. Come si può constatare leggendo tali critiche, si tratta in generale di giudizi politicizzati ed emessi non su base oggettiva, in genere di ambito esterno ai suoi film. Ad esempio, ci fu chi criticò il ferroviere come personaggio perché non gli era stata data consapevolezza della lotta di classe, uno degli ideali che secondo Germi erano stati strumento di inganno, una critica comunque non solo non centrata, ma esclusivamente ideologica e che riguarda gli operai quasi rappresentassero un genere a parte, impegnati come mezzi della lotta di classe – o, secondo Germi, strumentalizzati per il consolidamento del potere di classe. Gli fu rimproverato di avere dato vita a un ferroviere di stampo borghese, di nuovo come se gli operai dovessero essere come li voleva il partito. Ci fu anche chi, come ad esempio Alfredo Giannetti, suo stretto collaboratore in molte sceneggiature, mise in evidenza addirittura sue caratteristiche fisiche negative, che qui non si citano, in un’intervista. È senz’altro vero, Germi non era un bell’uomo, ma credo che Giannetti, magari senza volere, abbia raggiunto con ciò il livello della detrazione più squallida dettata dall’invidia per il maggiore. Giannetti era di ideologia comunista e nella sua intervista post mortem, da lui rilasciata su Germi, (https://www.arums.org/no_subete/2007/02/08/alfredo-giannetti-su-pietro-germi/) sembrerebbe che facesse tutto lui stesso e che Germi fosse addirittura solo uno che eseguisse i suoi ordini, i suoi consigli visto che, secondo Giannetti, Pietro Germi non era un creativo, ma uno che si appropriava di idee di altri. Che Germi, sempre il primo nelle sceneggiature cui collaboravano anche Giannetti e diversi altri sceneggiatori, fosse il principale artefice e curatore delle sceneggiature per le parti rilevanti, è evidente. Al proposito, basta citare anche solo il fatto che non eseguì, tra l’altro, l’idea di Giannetti di far finire L’uomo di paglia facendo gravare la colpa solo sul marito a fronte di una moglie che non ne sapesse nulla degli eventi gravi in cui era coinvolto lo stesso. Giannetti evidentemente non sapeva che cosa volesse mostrare Germi nel suo film, non lo aveva capito, come può  accadere a chi resti in superficie nella comprensione: l’uomo di paglia è di paglia come un pagliaccio, perché non sa portare responsabilità in generale e tanto meno quella della colpa grave, del rimorso per il suicidio dell’amante, che deve scaricare sulla moglie confessandosi e chiedendone il perdono, un po’ come nella confessione ecclesiastica che dà l’assoluzione per tutti i delitti senza che chi confessa la sua cattiva azione debba renderne conto in qualche modo. Il protagonista non si tiene la colpa solo per sé, ma appunto Giannetti, malgrado credesse che il suo finale fosse il migliore e si rammaricasse del fatto che Germi non abbia voluto il suo finale, non fu ascoltato da Germi che sapeva quello che faceva e che doveva fare per esprimere la sua Weltanschauung. Per chiarire: credo che Giannetti come critico di Germi, così come tanti altri, non sia andato in profondità nel significato del messaggio che Germi voleva offrire e ha offerto nei suoi film curando per questo i minimi dettagli delle immagini esattamente per come li voleva lui, perché significassero quello che interessava a lui di significare. Giannetti fu bravissimo e utilissimo, assieme agli altri sceneggiatori, per creare il canovaccio per così dire bruto su cui Germi innestava poi la sua arte densa di significato. Anche il giudizio di Giannetti sull’attore Saro Urzì (Catania 1913-San Giuseppe Vesuviano 1979) è forse, si permetta l’opinione, troppo pesantemente negativo, Urzì come attore viene definito da Giannetti  “l’ultima ruota del carro”, giudizio che qui comunque non viene affatto condiviso, questo sulla base delle sue ottime interpretazioni nei film di Germi per le quali ottenne diversi Premi, diverse nomination, diversi Nastri d’Argento come migliore attore.

Una ulteriore critica negativa sempre proveniente dall’ambito esterno al valore dei tre capolavori di Germi – con il termine capolavoro mi riferisco sempre e solo ai tre capolavori sopra citati, non ad altri film di Germi per intenderci e certamente non a Serafino –, deriva dal fatto che nei film interpretasse egli stesso la parte del protagonista. L’interprete del film Il ferroviere, secondo il produttore Carlo Ponti, sarebbe dovuto essere Spencer Tracy, che a mio giudizio avrebbe senz’altro interpretato eccellentemente la parte di un ferroviere americano, certamente non quella di un ferroviere italiano. Alla fine dopo tanti dubbi di Germi dovuti, pare, ai suoi tic nervosi che Giannetti sottolinea nell’intervista e che non si adattavano ad una recitazione, Germi, sostenuto in questo, per motivi vari, proprio da Giannetti, interpretò di persona il ruolo che lo consacrò sorprendentemente attore straordinario – durante la recitazione Germi aveva perso e perdeva i suoi tic – e per interpretare il quale, dietro il quantomeno discutibile e comunque per così dire strano consiglio di Giannetti, ingrassò notevolmente. Ci fu anche chi disse, per detrarlo e come se fosse qualcosa di non regolare, che proprio nei tre capolavori interpretasse sempre solo se stesso. A onore del vero occorre sottolineare come Germi fosse persona capace di andare in profondità nei recessi della personalità umana, capace di andare oltre le semplici consuetudini interpretative accademiche.  In ogni caso il film ebbe grande successo in contrasto con le critiche negative e tale successo fu dovuto anche e in misura non piccola alla sua eccellenza di attore. Occorre sottolineare in aggiunta come Germi fosse capace non solo di dirigere gli altri stando dietro la sua macchina, ma di dirigere anche se stesso essendo nel contempo attore, qualcosa di non semplice o quasi impossibile, ma in cui Germi eccelleva. Concludendo il cenno alla critica negativa su Germi, leggendo sue frasi relative a problemi inerenti, tra l’altro, alla critica, alla situazione culturale e sociopolitica in Italia, all’arte cinematografica, emerge l’identità di una persona senz’altro dal carattere difficile, poco malleabile – non concordo tuttavia per nulla con il fatto che secondo qualche critico fosse anarchico, i suoi tre capolavori, lasciando perdere tutto il resto, non manifestano e non contengono nessuno spunto anarchico, tutt’altro –, ma fosse persona intelligentissima e creativa fino alla genialità, un regista attento ai minimi particolari delle immagini che per lui venivano a comporre il significato dei suoi film, una identità molto diversa da quanto appare dalle critiche che lo definiscono persona ottocentesca o che fuggiva gli intellettuali o addirittura che sfruttava le idee degli altri – quelle idee che gli altri non avevano e che avrebbero magari o senz’altro voluto avere il coraggio di avere. Un po’ come successe a Ignazio Silone che osò criticare dall’interno – era iscritto al partito comunista – il comunismo, così che venne detratto e offeso ignobilmente da coloro che non potevano accettare nessuna critica entro le coordinate della loro ideologia, così che alla fine pagò la sua libertà di idee e la sua buona fede, pur essendo o proprio perché a favore di un comunismo rivoluzionario, con l’espulsione dal partito e con il dileggio delle sue opere che invece furono successivamente riconosciute di notevole spessore.

Per concludere questa analisi critica del film Il ferroviere, segue un’opinione di Pietro Germi sull’arte riportata da un critico a lui favorevole, Fernaldo Di Giammatteo, appunto critico cinematografico, storico del cinema, anche attore. Afferma Di Giammatteo ricordando Germi: “Negando di essere un ‘neorealista’, egli [Germi] ha inteso, più che sostenere una posizione personale, ricordare che le ragioni dell’arte sono altra cosa dalle correnti o dalle tendenze troppo precipitosamente nate, che la piatta registrazione della realtà non ha alcun significato estetico, ma è addirittura impossibile per poco che la personalità del regista riesca a lasciare il segno della sua esistenza”. 

Un giudizio su cui non si può che concordare. Si tratta di un concetto profondo che va ben oltre la superficie delle idee, soprattutto si colloca contro il conformismo delle idee che non faceva parte della personalità di Pietro Germi e che dà ragione della sua grande arte cinematografica nei tre capolavori citati in questo studio.  

                                                                                                                          Rita Mascialino

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