Foto in occasione dei Santi Patroni

Si invia il testo integrale dell’omelia che mons. Riccardo Lamba ha pronunciato venerdì 12 luglio nella Santa Messa celebrata alle 10.30 in Cattedrale a Udine, in occasione della solennità dei Santi Patroni Ermacora e Fortunato.

Cari fratelli e sorelle in Cristo,

la pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato appartiene al capitolo 15 del Vangelo di Giovanni: siamo al centro del discorso che Gesù sta facendo nell’Ultima cena, poche ore prima di essere arrestato e di andare incontro alla sua passione e morte.

Come sappiamo, è un discorso lungo e articolato nel quale Gesù, oramai al termine della propria esistenza, avendo compiuto la missione affidatagli dal Padre, parla ai suoi discepoli con chiarezza, senza giri di parole e non più in parabole per dire quello che è stato il “senso” della sua vita, di ciò che lo aspetta, ma anche di ciò che Lui si aspetta dai suoi discepoli e quindi anche da noi.

Pochi versetti prima di quelli che abbiamo appena ascoltato, Gesù rivolgendosi ai discepoli ha detto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Voi siete miei amici, se farete ciò che vi comando» (Gv 15,12-13). E ancora prima: «Io solo la vite e voi i tralci. Chi rimane in me ed io in lui, fa molto frutto. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (Gv 15,5-6).

Credo che la pagina del Vangelo che è stata proclamata oggi in occasione della solennità dei nostri Santi Patroni, se non tenesse conto dei versetti che la precedono e che ho appena ricordato, potrebbe esporsi al rischio di una interpretazione parziale e riduttiva, che non di rado abbiamo sentito anche nelle nostre comunità: “Ecco, questa è la conferma che nel mondo non c’è più fede. Il mondo ce l’ha con la Chiesa e non perde occasione per attaccarla e ridicolizzare i suoi ministri ed i credenti in genere”.

Non ci vuole una laurea in teologia pastorale per giungere a dire, con San Paolo, che i valori del Vangelo sono «scandalo per il Giudei e stoltezza per i pagani» (1Cor 1, 23) o che è più facile, come dice Gesù «guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro piuttosto che la trave nel proprio occhio» (cfr. Mt 7,3)!

Non ci vogliono due lauree in psicologia ed in sociologia per capire che tutti noi siamo più inclinati a fare scelte che ci facciano acquisire “posizioni” di visibilità, di successo, di potere, piuttosto che di nascondimento, di umiltà, di servizio.

Credo però che questa interpretazione del Vangelo di Giovanni che abbiamo ascoltato, potrebbe rischiare di essere riduttiva, “lamentosa”, parziale, se non la leggiamo nel contesto di tutto il capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, dove c’è un duplice richiamo, chiaro ed esplicito: sulla necessità prioritaria di rimanere uniti a Gesù Cristo come i tralci alla vite per portare frutti di vita vera anziché di lasciare rinsecchire la nostra vita e quindi di bruciarla e sulla bellezza di “appartenere” a Cristo e alla Chiesa, come fonte di gioia vera, credibile, comunicabile!

Da qui nascono alcune domande:

  • Io sono “sostanzialmente” e non solo “formalmente” unito a Gesù Cristo?
  • Che cosa faccio ogni giorno per essere e rimanere sostanzialmente unito a Gesù Cristo?
  • Qual è il mio senso di appartenenza alla Chiesa locale, alla Diocesi, al territorio in cui il Signore mi ha chiamato ad essere?
  • Come coltivo questo senso di appartenenza?
  • Da questa comunione sempre da rinnovare con Cristo e con la Chiesa sto sperimentando personalmente e sta sgorgando una gioia di esistere e di credere, percepita tangibilmente da coloro con cui mi relaziono?
  • Come vivo le reali e frequenti difficoltà ed ostacoli che incontro nel vivere e testimoniare i valori della fede, della vita, della famiglia, della giustizia, della solidarietà?

«Un servo non è più grande del suo padrone», dice Giovanni (15,20). Ma Sant’Ignazio di Loyola direbbe: «Che onore è essere servi inutili (cioè senza guadagni facili e personali) di così grande padrone come il Signore Gesù!»

Celebrare i martiri Ermacora e Fortunato, patroni della nostra Chiesa, le cui radici sono in Aquileia, significa ricordare, anche a noi e a quanti desiderano essere discepoli di Gesù Cristo, che quando ci poniamo alla Sua sequela, prima o poi, in un modo più o meno esplicito, si pone la questione della fedeltà a Gesù Cristo senza compromessi, ma anche senza “lagne”, proprio come loro, i Santi Patroni, l’hanno vissuto.

Solo così anche noi oggi potremo raccogliere il testimone della fede, passato attraverso il crogiuolo del martirio di sangue, che ha generato alla vita nuovi cristiani, perché la “vita” che loro hanno trasmesso è la stessa che avevano ricevuto da Gesù Cristo nel mistero Pasquale, la stessa vita che anche noi possiamo già sperimentare sin dal giorno del nostro Battesimo. Quel testimone potremo così trasmetterlo con gioia e speranza alle generazioni dopo di noi.

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