Grandi e piccoli schermi

Di Marcello Terranova

Un cortometraggio in bianco e nero di 11 minuti realizzato sul nostro territorio più di 70 anni fa. Perché parlare di un filmato così datato? Il motivo è semplice : si tratta di uno dei primi documentari di Michelangelo Antonioni, girato a Torviscosa quando il regista di Ferrara aveva 37 anni.

Il titolo del film “Sette canne, un vestito” è abbastanza esplicito. E’ un documentario dedicato alla fabbrica della SNIA che fin dagli anni 30 produceva il rayon, una specie di seta artificiale ricavata dalle piantagioni di canna presenti nella zona di Torviscosa. Già sotto il regime fascista si era pensato di ricavare cellulosa non dal legno delle conifere del Nord Europa ma dall’arundo donax, una canna abbondante presente nelle aree di bonifica nel sud del Friuli. E ciò in seguito alla politica di autarchia stimolata dalle sanzioni internazionali imposte all’Italia dopo la guerra di Etiopia.

Una voce fuori campo illustra la trasformazione della materia prima (la canna gentile) per ricavare dopo un lungo processo una fibra tessile. Con sole sette canne si può ottenere un filo sufficiente per confezionare un vestito. Nei pressi del centro agricolo Torre di Zuino negli anni 1936-37 era sorto per opera del regime un enorme stabilimento industriale con case per gli operai e una rete mai vista di servizi. Nel 1938 il complesso fu inaugurato dallo stesso Mussolini e celebrato da un poema di Marinetti.

Anche dopo la guerra, dopo la riparazione delle strutture danneggiate dai bombardamenti, la politica autarchica non fu abbandonata e il presidente della SNIA Marinotti chiamò il giovane regista Antonioni a illustrare con la pellicola le fasi di una lavorazione complessa e quasi titanica di una materia apparentemente povera.

Fin dai primi fotogrammi si capisce che è un film neorealista, ma con qualche novità come l’estrema cura delle inquadrature e una fotografia impeccabile. Gli operai intenti al loro lavoro non sono colti “live” ma disposti in sequenze pensate volte a suscitare nello spettatore un’emozione quasi estetica. Il testo, che oggi ci appare retorico come l’incipit ”Questa è la favola del rayon…”, segue sia pure alla lontana l’andamento poetico-celebrativo del poema di Marinetti dedicato all’impresa.

Per gli studiosi del cinema il documentario di Antonioni è prezioso perché nelle immagini si possono cogliere gli spunti che poi avrebbero portato il regista a pensare e realizzare opere come “Il grido” e “Deserto rosso”. Per noi Friulani, “Sette canne, un vestito” è un documento che ci riporta a quegli anni del dopoguerra che, sia pure in un contesto di povertà, era animato dalla voglia di “fare” per un futuro migliore.

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